In un mondo globale e connesso come quello del jazz di oggi non è raro che giovani musicisti italiani si trovino a collaborare in modo più o meno continuativo con colleghi di altre nazioni e generazioni.
Sono lontani i tempi – seppur romantici – in cui collaborare con il “venerato maestro” a stelle e strisce significava cercar di far parte di una sezione ritmica (più economica e spesso ottima) per la tournée nel Bel Paese. Oggi capita più spesso di muoversi per “affinità elettive”, per incroci di percorsi che formano coppie molto interessanti.
Per curiosa coincidenza, due di queste “coppie” pubblicano più o meno nelle stesse settimane una vivace testimonianza discografica della collaborazione: si tratta di Gabriele Mitelli con Rob Mazurek e di Filippo Vignato con Hank Roberts, abbinamenti che a dispetto del gap anagrafico e dell’ovvia “influenza” del più navigato musicista americano, si muovono all’insegna di una fluida parità creativa.
Quello tra Mitelli e Mazurek è legame che, solo a conoscere anche un po’ superficialmente entrambi, sembra inevitabile, musicalmente e umanamente: accomunati da visionarietà, amore per un’elettronica pulsante e cosmica, da una rituale visceralità, entrambi i trombettisti (che poi è di volta in volta cornetta, pocket trumpet, flicorno contralto, oggetti, voce, devices vari) sono instancabili esploratori di cieli sfrigolanti di astri.
Star Splitter (Clean Feed, 2019) testimonia la performance a FabbricaEuropa (Firenze) nel 2018 e trae ispirazione da una poesia di Robert Frost che racconta di un agricoltore che dà fuoco alla propria tenuta per comprare con i soldi dell’assicurazione un telescopio e passare il resto dei suoi giorni a contemplare gli astri. Le quattro lunghe parti dell’esibizione – coltranianamente distinte da nomi di pianeti – si muovono dunque su coordinate di magmatica fantascienza sonora lacerata dalle linee liriche degli ottoni, tra clangori iridescenti e momenti in cui ci sembra di intravvedere Don Cherry con una tuta da astronauta che tiene per mano dei bambini. La conclusiva “Uranus” regala una prospettiva, poco conciliante ma intrigantissima, di alienazione sonora che lascia aperte le evoluzioni del duo.
Meno apollinea delle classiche pagine di Chicago Underground e con la componente tribale che a volte è ombreggiata da volute di caligine scura, la musica di Mitelli e Mazurek (che hanno da poco terminato un bel tour in Italia) conferma la febbricitante tensione esplorativa di entrambi i musicisti, che sembrano sempre intendersi senza sforzo, fiduciosi che gli astri che uno dei due individuerà saranno subito messi al centro di una danza il cui significato sta a noi intuire.
Quella tra Vignato e Roberts è un’avventura che è nata come spin-off del progetto Pipe Dream (il bel gruppo di cui vi abbiamo raccontato qui) e che ha trovato rapidamente una sua necessità espressiva. Registrato in una cantina vinicola friulana, le Vigne di Zamò, nell’ambito di una serie di progetti tra jazz e vino, Ghost Dance (CamJazz, 2019) restituisce bene il feeling tra i due musicisti.
Interamente giocato su delicate tessiture acustiche (piuttosto incredibilmente il comunicato stampa parla di uso di live electronics che non esistono, così come omette del tutto di parlare del progetto Pipe Dream… misteri della fede!) e sull’intimità della condivisione del canto, quello della voce e quello degli strumenti.
Se lo sguardo di Mitelli e Mazurek implica il telescopio, quello di Vignato e Roberts è piuttosto abbinabile al microscopio, uno strumento che ci fa apprezzare non solo i dettagli, ma anche le minuscole danze delle particelle. Il mondo di Roberts, con le sue coloriture folk sia al violoncello che alla voce, trova nel trombone del più giovane collega un elemento in grado di mettere in moto un felice impulso cinetico in cui convivono la circolarità delle strutture, l’esplorazione di frammenti ancestrali, la bellezza del sorprendersi anche solo di come si piega una melodia. Camerismo da cantina – le botti che circondano i due musicisti nelle foto del booklet sono quasi percepibili nella loro armonia tra legno e metallo – quello di Vignato e Roberts evoca una dimensione incantatoria e inclusiva alla quale è difficile restare indifferenti anche solo su disco.
Due momenti importanti che raccontano bene l’avventurosa indole dei nostri jazzisti della generazione millennials (sia Mitelli che Vignato sono poco più che trentenni), che la fluidità con cui gli artisti più curiosi e umanamente coinvolgenti – Mazurek e Roberts si possono certamente ascrivere a queste categorie – accettano queste esplorazioni transgenerazionali.
Molto bello.