Il sentimento popolare di Camilla Barbarito
Esce per Felmay il disco della cantante Camilla Barbarito, un viaggio nel mondo degli ultimi, dalla Grecia al Sudamerica
Il giro del mondo in tredici canzoni. Partenza e ritorno a Milano, ma non quella che rimpiange con sospetta intermittenza il tempo perduto e un po’ magico dei navigli e del cabaret feroce, e neppure quella che si sente sempre e solo unico degno approdo europeo. Una Milano delle persone, senza né paraventi ideologici asfissianti (anche se in questo disco ci si schiera eccome: dalla parte dei penultimi e degli ultimi, sempre e comunque) né abdicazioni facili alla retorica del come eravamo una volta. Una Milano di oggi, senza altri aggettivi a descrivere.
È il campo d’azione di Camilla Barbarito, voce luminosa formatasi sulla palestra dura del canto lirico, sull’approccio più morbido ma senz’altro non meno impegnativo della vocalità jazzistica, e infine approdata al mondo delle note apolidi che hanno la carta d’identità multiple, grazie anche a un bel po’ di viaggi. Aggiungete al tutto che Barbarito ha una presenza scenica indiscutibilmente forte, frutto di una vita parallela e allineata alla musica, però nel mondo del teatro, e una vorace curiosità per tutto quello che smuove emozioni vere, in musica, e avrete una buona introduzione a questo disco. Fresco, caotico, spesso frastornante, perennemente in bilico tra forze e latitudini che giocano a far perdere l’equilibrio. Dove capita di imbattersi in un nostalgico e ombroso rebetiko ("I Mangues then iparhounm pia") che sembra fiammeggiare di acidità psichedelica, e in un brano dello stesso stile “maledetto” ("kaigomai kaigomai") che invece è un acquerello straziato di suoni acustici che, più che volgere lo sguardo al Pireo, fanno pensare a un maqam arabo.
Oppure può capitare di scovare un brano ecuadoriano di yaravì, a sua volta figlio dello stile harawi, e sciogliersi in un lago caldo di romanticismo, o, ancora, imbattersi nella “bella ciao” dei senegalesi, che si intitola "Niani Bagna", e racconta la storia di un villaggio che seppe resistere a tutti gli invasori (europei in primis, ovviamente) che tentarono di piegarlo.
Ci sono poi scampoli di note Rom macedoni, un lacerto di tammurriata campana, un tributo a Nino Rota, uno a Caceres, il cantore delle origini afroamericane del tango. Il “sentimento popolare” del titolo, insomma, mette in conto un gran disordine creativo. Che, come sempre accade con le cose sentite nel profondo, a un ascolto attento in fretta si ricompone in un quadro armonico in cui ogni tessera è al posto giusto, e dialoga con tutte le altre.