Daniele Gatti dirige Brahms a Santa Cecilia
L’interpretazione del direttore milanese è apparsa trasfigurata e approfondita rispetto al suo precedente ciclo brahmsiano a Roma del lontano 1997
Non sappiamo se il concerto interamente dedicato a Brahms da Daniele Gatti all’Accademia di Santa Cecilia fosse l’inizio di un nuovo ciclo brahmsiano, ma ce lo auguriamo, perché il risultato è stato splendido.
Iniziamo dalla fine, dalla Sinfonia n. 2, per la quale Gatti ha voluto un’orchestra dalle dimensioni ridotte rispetto a quelle che oggi solitamente si ascoltano nel Brahms sinfonico. Era il punto di partenza per un’interpretazione d’impronta cameristica della più intima e raccolta delle quattro sinfonie brahmsiane. A renderla “cameristica” erano non solo e non tanto le dimensioni dell’orchestra ma anche e soprattutto il dialogo incessante e strettissimo tra i vari strumenti, che sarà anche stato preordinato dalla bacchetta del direttore ma sembrava nascere naturalmente e spontaneamente sul momento, come se tutti i musicisti si ascoltassero l’un l’altro, secondo quanto avviene in un piccolo gruppo da camera e avveniva anche nelle orchestre sinfoniche, prima che l’avvento del direttore-dittatore riducesse gli strumentisti a esecutori della sua volontà. In questo Gatti segue la strada indicata dall’ultimo Abbado.
Nella sua interpretazione risaltava magnificamente il felice e ininterrotto (tranne pochi e brevi momenti di contrasto) flusso melodico che innerva questa sinfonia, definita al suo apparire"l'ultima sinfonia di Schubert" proprio per il suo carattere eminentemente lirico e "cantante" (ma per il resto c’è poco o nulla di schubertiano). Contemporaneamente emergeva la continua polifonia dei motivi che si sovrappongono e dialogano con estrema naturalezza, senza nessuna ombra di tecnicismo contrappuntistico, che Brahms riesce a evitare anche nel finale, nel quale mette in gioco gli espedienti più sofisticati, quali l'inversione, l'aumentazione, la contrapposizione ritmica. E che meraviglia il suono, leggero e trasparente ma allo stesso tempo caldo e avvolgente! Prevalentemente tenero con un fondo malinconico nei primi due movimenti, con una leggerezza elfica mendelssohniana nello Scherzo e gioioso,vigorosoe tumultuoso nel Finale.
Nella Sinfonia Gatti ha trovato un’intesa totale con l’orchestra di Santa Cecilia, ma nella prima parte la stessa intesa non era scattata con Yefim Bronfman, solista nel Concerto n. 2. Ai suoi esordi questo pianista con passaporto israeliano e americano, ma nato nell’ex URSS, si imponeva soprattutto per sue dita d’acciaio, robustissime e infallibili. Questa volta, per scelta o perché col passare degli anni le dita sono diventate meno sicure, ha encomiabilmente cercato sonorità più delicate e varie, in linea con la direzione di Gatti. Però gli è rimasto un che di meccanico, che va benissimo in Prokof’ev ma nient’affatto in Brahms. Nell’Andante, quando è entrato dopo che Luigi Piovano aveva suonato magnificamente la melodia del violoncello, che è quanto di più brahmsiano si possa immaginare, si è avvertito crudamente come Bronfman si limitasse a mettere le note una dopo l’altra. Erano invece bellissimi certi passaggi brillanti, certe piccole frasi decorative. Ma era un’interpretazione altalenante ed episodica, non completamente soddisfacente. Alla fine non sono mancati gli applausi, ma non troppo calorosi, senza richieste di bis. Convinti ed entusiastici invece gli appalusi per Gatti dopo la Sinfonia.
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