La Vedova allegra senza la belle époque
Damiano Michieletto la ambienta negli Anni Cinquanta, in un piccolo mondo di provincia che ricorda Frank Capra più che Ernst Lubitsch. Mancano valzer e champagne e ne risente il gracile fascino dell’operetta di Lehár
Applausi e fischi per Damiano Michieletto e la sua squadra (Paolo Fantin scenografo, Carla Teti costumista, Alessandro Carletti luci e Chiara Vecchi movimenti coreografici) alla fine della Vedova allegra, coprodotta dall’Opera e dalla Fenice, dove già era andata in scena lo scorso anno. Non è certamente una novità che il pubblico si divida nel giudicare gli spettacoli del regista veneziano, ma questa volta le contrapposte manifestazioni di sostenitori e detrattori non sono state molto rumorose, come se gli uni e gli altri ripetessero senza troppa convinzione il solito copione. In effetti non c’era motivo né d’entusiasmarsi né di sdegnarsi, perché si trattava di uno spettacolo piuttosto normale: la sorpresa era che Michieletto non ha fatto nulla di particolarmente sorprendente, audace, spiazzante. Azzardiamo l’ipotesi che al suo primo incontro con l’operetta abbia pensato che da questo genere musicale non si potesse spremere molto e che la cosa migliore fosse esercitare una garbata ironia.
Forse i contestatori sono stato disturbati dall’assenza della sfarzosa atmosfera della belle époque, sostituita da costumi e arredi tristanzuoli degli Anni Cinquanta. Il primo atto si svolge nel salone della Pontevedro Bank, il luogo più adatto per accogliere le preoccupazioni del Barone Zeta sul possibile imminente dissesto finanziario del suo paese da operetta. Lì lavora Danilo, che non è un conte e un addetto d’ambasciata ma un impiegato di seconda categoria, per niente fascinoso nel suo completo color nocciola, probabilmente l’unico suo vestito decente, dato che non lo cambia mai. E Hanna? È un’ereditiera miliardaria o non piuttosto una cantante di modesto successo, che sbarca il lunario esibendosi nel night club dove si svolge la festa tutt’altro che sfarzosa del secondo atto? Forse tutti sognano. Questo sembra suggerire la trasformazione di Njegus in un mago che, tra le altre sue magie, fa apparire agli occhi dei protagonisti la realtà diversa da quel che realmente è. Per esempio, nel terzo atto Danilo non sta affatto Chez Maxim’s ma nel suo squallido ufficio e le grisettes se le sogna, letteralmente.
L’atmosfera non è frizzante, ma anzi un po’ dimessa, perfino noiosetta, e anche alcune scene molto movimentate riescono a ravvivarla solo per qualche momento. Si ride poco. E si balla poco: delle danze della belle époqueche risuonano in orchestra restano poche tracce in palcoscenico, dove si balla il twist e il rock’n’roll, tanto che il Corpo di Ballo del teatro è stato lasciato a casa. Non ci sono più il languore e la malinconia per un mondo gioioso, elegante e anche fatuo e leggero, che sta per svanire e lasciare il passo a un’epoca di ferro, in cui sta il vero fascino dell’operetta di Franz Lehár.
Forse quel che si vede in palcoscenico influenza la direzione un po’ lenta e uniforme - ma indubbiamente curata - di Constantin Trinks: si potrebbe fare della facile ironia sul fatto che, come si legge nel suo curriculum, diriga soprattutto Wagner. Le due protagoniste femminili Nadja Mchantaf(Hanna) e Adriana Ferfecka
(Valencienne) hanno entrambe pregi e limiti: hanno spigliatezza e presenza scenica, ma voci povere di colore, di charme, di incanto. Nettamente meglio gli uomini: Anthony Michaels-Moore (Zeta) è elegante e sottilmente ironico, Paulo Szot (Danilo) unisce alla bella voce la simpatia. Il testo di Njegus (ricordiamo che non è un cantante ma un attore) è stato molto ridotto ma Karl-Heinz Macek gli ha dato egualmente una notevole presenza.Bene nei ruoli minori Peter Sonn (Rossillon), Marcello Nardis (St Brioche) e Simon Schnorr (Cascada). I comprimari erano affidati ai giovani del progetto “Fabbrica” dell’Opera.
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