La grandeur esistenzialista della Cinematic Orchestra
To Believe: il ritorno della Cinematic Orchestra dopo 12 anni di assenza è imponente ma vuoto
Un senso d’imponenza accompagna il ritorno del progetto The Cinematic Orchestra guidato dal britannico Jason Swinscoe, da qualche tempo coadiuvato da Dominic Smith. Lo trasmette persino la distanza che separa questo album – quarto in una serie inaugurata da Motion esattamente 20 anni fa – dal precedente Ma Fleur, edito nel 2007: quasi un’era geologica per la fisiologia del mercato musicale, benché l’attività sia proseguita frattanto dal vivo in sale prestigiose e grandi festival.
E poi l’ampolloso concept che informa l’opera, ossia la nozione di fede, nientemeno. “In cosa dobbiamo credere?”, s’interrogano i due. Risposta, data nel 2016 da Swinscoe a The Guardian, quando da poco era trapelata la notizia di un disco nuovo in preparazione: “In noi stessi”.
A proposito di grandeur, infine, è proverbiale l’ambizione espressiva dell’Orchestra Cinematografica (tale per via degli studi d’arte visiva compiuti in gioventù dal capobanda, attitudine esemplificata nel 2003 in una celebre sonorizzazione del leggendario film muto di Dziga Vertov L’uomo con la macchina da presa). To Believe non la smentisce affatto, anzi: dagli arrangiamenti sontuosi (con prevalenza d’archi, coordinati da Miguel Atwood-Ferguson, abituale collaboratore di Flying Lotus) all’ampiezza dell’esposizione, che all’epilogo – in "A Promise", avviata in sordina dalla voce di Heidi Vogel e sviluppata quindi in un crescendo tendente all’epico – supera la soglia degli 11 minuti.
Al confronto, risulta essenziale l’ouverture, affidata al brano che dà titolo al lavoro: qui al microfono troviamo il cantautore californiano Moses Sumney, il cui intenso falsetto, associato a un alato sviolinare e moderati accordi sintetici, sembra voler rinverdire i fasti di “To Build a Home”, episodio centrale del capitolo antecedente e in assoluto composizione più nota dell’intero repertorio, per quanto è stata usata al cinema e in televisione.
Ascoltato nell’insieme (sette pezzi in 53 minuti e mezzo complessivi), To Believe dà la sensazione di contenere musica innamorata di sé stessa: elegantissima nella forma (come dimostrano i due strumentali: “Lessons”, dall’impronta vagamente minimalista, e “The Workers of Art”, incline viceversa a un camerismo “neo classico”) ma poco consistente in fatto di argomenti. Cosicché, più di certe melensaggini (tipo il manierismo soul della vocalist londinese Tawiah, protagonista in “Wait for Now/Leave the World”), funziona la rude risolutezza del rapper Roots Manuva in “A Caged Bird/Imitations of Life”, dove lo spleen decorativo dell’orchestrazione beneficia di una trasfusione di vita vera.