Gruppo di divini in un interno
A Strasburgo l’Opéra du Rhin porta in scena La divisione del mondo di Giovanni Legrenzi
Nell’immaginario Bignami collettivo dell’opera barocca veneziana, la linea di successione passa per Monteverdi, Cavalli e Vivaldi, ignorando che fra gli ultimi lavori di Cavalli e i primi di Vivaldi passano più o meno 40 anni cruciali nell’evoluzione del genere. Una delle figure chiave in quei 40 anni che sconvolsero l’opera è Giovanni Legrenzi, la cui produzione teatrale è ancora tutta da scoprire. Lo sarebbe pure La divisione del mondo senza il lavoro di restauro di Thomas Hengelbrock, che ha presentato l’opera nel 2000 al Festival di Schwetzingen. Proviene da quel lavoro anche la nuova produzione scenica presentata a Strasburgo dall’Opéra national du Rhin che, dopo le tappe alsaziane di Colmar e Mulhouse, approderà all’Opéra Royal di Versailles in aprile. Le cronache raccontano di un immenso successo in quel 4 febbraio 1675 nel veneziano Teatro di San Salvador per questo dramma per musica su uno stravagante soggetto mitologico messo in versi raffinati da Giulio Cesare Corradi. Un successo che si tradusse in numerosi allestimenti nell’intera penisola fino alle soglie del 1700 prima di un oblio secolare, e che si dovette anche alle meraviglie scenografiche dispiegate per narrare le movimentate vicende della grande famiglia degli dei dell’Olimpo vittoriosa sui Titani ribelli e la spartizione del mondo fra i tre fratelli Giove, Plutone e Nettuno.
Scene meravigliose non se ne vedono invece nel compatto allestimento firmato dalla regista Jetske Mijnssen, che insiste piuttosto sul complesso intreccio di conflitti divini per la conquista della desideratissima dea Venere in un interno domestico. Unico riferimento all’ambiente veneziano (e alla lascivia dell’impenitente Giove) l’immagine di Leda avvinghiata al cigno della tela di Paolo Veronese riprodotta sia sul sipario che nell’affresco sulla parete curva frontale della doppia scala a elica che chiude l’ambiente unico (disegnato da Herbert Murauer) della grande casa di un Giove in doppiopetto azzurro arredata con mobilio “middle class”. Anche l’evento cui il titolo fa riferimento con una certa solennità (risolto in un breve passaggio del libretto) si traduce in una semplice riassegnazione delle stanze della casa con conseguente movimento di scatoloni. Ambiente a parte, molto quotidiane sono anche le dinamiche messe in moto nelle quattro generazioni che abitano la casa dalla volubile Venere, bramata da Giove con massimo scorno di una Giunone sfiorita e gelosa, non meno che dai due fratelli perditempo Nettuno e Plutone, rampognati dal vecchio padre Saturno. Venere si concede a un Marte focoso ma ammicca anche agli altri e stuzzica chi le resiste ossia un Apollo sentenzioso e dogmatico, rappresentato spiritosamente come un ecclesiastico. E i più giovani, il pestifero Amore e l’amica Discordia, si fanno beffe dei padri e dei nonni con l’arma di un’impertinente Polaroid. Con pochi ma accorti tratti, di ognuno Mijnssen fa un piccolo ritratto molto acuto ma non perde di vista il passo della commedia per non lasciar spazio alla noia nelle quasi tre ore (pausa compresa) dello spettacolo.
Privo di una vera direzione, il gioco combinatorio sviluppato nell’opera si presta a una partitura che ancora risente della lezione di Cavalli pur senza averne la disinvolta e travolgente carica narrativa. All’abile alternanza di recitativi, arie e duetti del continuum caratterizzato da un rigoglioso gusto melodico ridà vita la competenza di un complesso barocco di qualità come i Talens Lyriques guidati da Christophe Rousset con più attenzione alla fluidità del discorso musicale che ai contrasti drammatici.
Sulla scena, un cast assortito e affiatato partecipa efficacemente al disegno scenico. Sophie Junker mette l’avvenenza vocale oltre che fisica al servizio di una Venere particolarmente seduttiva ma anche capace di dare espressione credibile agli umori cangianti della dea. Molto riuscita anche la prova di Julie Boulianne, una Giunone autorevole e perentoria ma non priva di una certa crespucolare mestizia, mentre Soraya Mafi offre un ritratto di giovanile freschezza a un’insolita Diana afflitta da pene d’amore per zio Plutone. Fatica un po’ a ingranare il corposo Giove di Carlo Alemanno, inizialmente piuttosto sfuocato ma in recupero sulla distanza. Ben caratterizzati da Stuart Jackson e André Morsch i due fratelli Nettuno e Plutone dal carattere marcatamente buffonesco, che contrasta con la severa saggezza di babbo Saturno che è Arnaud Richard. Ben tre i controtenori nella figliolanza legittima e non di Giove: Christopher Lowrey dà corpo e voce a un Marte tracotante ma tormentato nell’intimo, Jake Arditti disegna con spirito un Apollo severo e represso a fatica, e Rupert Enticknap è un Mercurio dandy di cechoviano distacco. Infine, Amore aveva le sembianze e la svettante spigliatezza vocale di Ada Élodie Tucamentre Discordia quelle “en travesti” del quarto controtenore in campo Alberto Miguélez Rouco.
Pubblico numeroso e attento, caldi applausi.
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