Turandot contemporanea

A Roma una Turandot con la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino

Turandot
Turandot
Recensione
classica
Teatro Argentina di Roma
Turandot
06 Febbraio 2019 - 10 Febbraio 2019

Un’articolata coproduzione italo-cinese, comprendente due teatri pubblici italiani (Emilia Romagna Teatro Fondazione e il Teatro Metastasio di Prato) e la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, due ‘drammaturghi’ cinesi (Wu Hang e Wu Yuejia) e un regista-scenografo italiano (Marco Plini) affiancato da corrispettivi e collaboratori dell’Opera di Pechino e dei coproduttori peninsulari, due compositori italiani (Luigi Ceccarelli e Alessandro Cipriani) e uno cinese (Qiu Xiaobo), realizza una Turandot sintetica di linguaggi e codici teatral-musicali, tre anni dopo aver già riformulato così un Faust. Il soggetto si presenta dunque adatto al dispiego di elementi scenici assai accattivanti, a partire dai costumi dell’Opera di Pechino e dalla gestualità connessavi, spesso molto spettacolare; d’altra parte, Turandot è una leggenda di origine centro-asiatica, riletta in occidente (non solo da Gozzi) sì da finire ambientata in un oriente ideale: quindi, i personaggi son quelli a noi noti già dall’opera di Puccini, e – opportunamente – la regia li fa muovere in uno spazio relativamente astratto, un bianco colonnato mobile, quale sfondo contrastivo e insieme allusivo in altra direzione rispetto agli stupendi costumi tradizionali. Rispetto al libretto della Turandotpucciniana, qui resta più evidente che Timur e Calaf sono del lignaggio dei khan, con tutto quello che ciò evoca nella millenaria storia cinese; lo sbocciare finale dell’amore tra la principessa e Calaf sembra assumere perciò un senso sincretico, ovviamente in piena coerenza con l’operazione.

I personaggi in scena sono interpretati dai bravissimi ‘attori’ della Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, ma la definizione è limitativa, essendo tutti gli interpreti depositari di almeno due  maestrie performative sulle tre fondamentali (parola intonata – com’è noto la lingua cinese produce opposizioni fonematiche anche con l’intonazione, canto vero e proprio, azione gestuale spinta fino all’acrobazia), se non di tutte queste. Rispetto al Faust, che – nel suo novero più contenuto di personaggi – ha potuto sfruttare più categoricamente le opposizioni di timbro vocale o strumentale e di materiali scalari disponibili nella tradizione di quel teatro tradizionale, questa Turandot ha dovuto duplicare alcune combinazioni, soluzione naturale per il trio Ping-Pong-Pang (veicolato da gestualità e parola intonata), meno per la coppia Liù-Turandot; ma non possiamo escludere che ciò sia dovuto a un difetto di sensibilità dell’ascoltatore occidentale, incapace di cogliere tutte le sfumature differenziali nei codici dell’Opera di Pechino, sfumature peraltro sufficientemente sottolineate nella costruzione della drammaturgia scenica, sia in chiave meramente spettacolare, sia nell’avvicendamento vocale di episodi dialogici e di brevi ‘numeri chiusi’ cantati. Il lavoro, perciò, ha ampliato e arricchito le combinazioni tra componente strumentale cinese (sette esecutori) e occidentale (chitarra elettrica ed elaborazioni, contrabbasso, percussioni, tutti e dieci a vista sulla scena in abito da cerimonia, come da tradizione nella forma spettacolare cinese), facendo perno sull’elettronica quale dominio specifico o di transizione timbrica, soprattutto per episodi introduttivi o interludi, e quale ulteriore legante verso la grana vocale specifica degli attori-cantanti. Il risultato musicale complessivo è in ogni caso convincente: ben elaborato, fascinoso, efficace rispetto alle situazioni drammatiche, tanto da evidenziare come – pure in una realizzazione del genere – gli snodi problematici sul piano drammaturgico-musicale (la staticità rituale o il carattere di ‘quadro’ di alcune azioni, la loro attesa prevalente sul loro accadere) rimangono quasi gli stessi, quando l’impianto è quello ‘interpersonale’ di matrice occidentale.

Applausi estremamente calorosi, alla fine, per tutti, nella data conclusiva della tournée italiana di circa un mese, che ha raggiunto Roma proprio nella settimana della celebrazione del Capodanno cinese.

 

 

 

 

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