Se Puccini incontra Schönberg

Al Teatro Comunale di Bolzano si apre la stagione lirica della Fondazione Haydn con il dittico Pierrot Lunaire e Gianni Schicchi

Pierrot Lunaire (foto Andrea Macchia)
Pierrot Lunaire (foto Andrea Macchia)
Recensione
classica
Bolzano, Teatro Comunale
Pierrot Lunaire e Gianni Schicchi
09 Novembre 2024 - 10 Novembre 2024

Non si potrebbero immaginare mondi sonori più lontani, quanto Marte dalla Terra. Eppure, quei due mondi così lontani si incontrarono nel fiorentino Palazzo Pitti il 1° aprile 1924. Puccini sarebbe sopravvissuto ancora otto mesi ma volle partecipare al Festival della Società Internazionale di Musica Contemporanea organizzato dal collega Alfredo Casella. Vi si eseguiva, fra l’altro, il Pierrot Lunaire del collega Arnold Schönberg, 12 anni dopo la prima berlinese. Puccini segue l’esecuzione sulla partitura che lo stesso Schönberg gli ha ossequiosamente consegnato. Puccini non si sbilancerà troppo – “è stato bello” e ancora “interessante”, gli dice – ma poi si lancia in una profezia che è quasi un passaggio di testimone: “Chi ci dice che Schönberg non sia un punto di partenza per una lontana meta futura?” 

A poco più di un secolo, auspici il centenario dalla morte di Puccini e il centocinquantenario della nascita di Schönberg, i due compositori si incontrano di nuovo idealmente sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bolzano per l’inaugurazione della breve stagione lirica della Fondazione Haydn. In scena il dittico decisamente insolito che combina il Pierrot Lunaire con il Gianni Schicchi estrapolato dal Trittico pucciniano. Aneddotica a parte, cos’hanno in comune i due lavori? Nulla. Tanto è astratto e straniante la poetica atonalità di Schönberg che colora con le tonalità della notte i versi oscuramente simbolisti di Albert Giraud, tanto è solare il colorismo del grande operista Puccini, anche nel per lui inedito terreno del comico. La regista Valentina Carrasco tenta comunque l’impossibile impresa di trovare una chiave unificante e la trova in un bizzarro racconto di tormento d’artista. Nella fattispecie, in scena ci sono un pittore e una musa inquietante (e cantante), che ne sollecita la scintilla creativa, sciorinando una galleria di creazioni pittoriche (molto presenti i Pierrot) e evocando il mondo di immagini dei 21 brevi testi poetici di Giraud. Troppe? Forse, specie se tolgono ossigeno al respiro dei versi e del contrappunto atonale di Schönberg.

Gianni Schicchi (foto Andrea Macchia)
Gianni Schicchi (foto Andrea Macchia)

La soluzione pittorica torna anche nella seconda parte della serata: lo scenografo e costumista Mauro Tinti immagina la morte di Buoso Donati come una scena sacra nei modi del Rinascimento fiorentino. Se i famelici parenti del morto sono i santi che circondano il Cristo/Buoso ai piedi di un sepolcro preso a prestito da Piero della Francesca, l’astuto Schicchi è il tormentato pittore con una picassiana Pierrot/Lauretta al seguito, come a dire che la “gente nova” è l’arte che si rivolta all’establishment. A parte questo, inutile cercare troppi significati in un dispositivo immaginato da Carrasco come pura macchina di divertimento, infarcita di gag un po’ facili e spesso goliardiche e che si chiude con un grande sipario alla Mondrian, unica immagine non figurativa nella selva di ritratti sacri e profani dello spettacolo. 

Al direttore Michele Gamba interessa evidentemente il Puccini più lirico anche nella macchina del comico del Gianni Schicchi: il passo impresso è spesso poco spedito e brillante ma conta più il disegno orchestrale e la bella scrittura che vien fuori tutta, anche in una compagine orchestrale poco di casa nel terreno dell’opera come l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento. E anche più cristallina è la scrittura schönberghiana che si legge nella concentratissima esecuzione dei cinque bravi solisti del Pierrot Lunaire, che sono Marco Mandolini, Gabriele Marangoni, Gianluca Montaruli, Sijing Tu, Nadia Bortolamedi più Ciro Longobardi al pianoforte. 

Nella compagine di canto si fra apprezzare soprattutto la prova di insieme più che le prove dei singoli. Se il protagonista Bruno Taddia, compensa uno spessore vocale piuttosto lieve per il ruolo con una certa disinvoltura scenica tanto in Puccini quanto, come mimo, in Schönberg, ed Enkelejda Shkoza mette in campo la rodata esperienza per la sua Zita scatenata. Acerba sul piano vocale è la coppia dei due giovani innamorati, cioè Sara Cortolezzis, una Lauretta sacrificata nello slancio lirico anche perché costretta a costume e movenze “cubiste” per esigenze di regia, e Antonio Mandrillo, un Rinuccio fresco e di buone speranze. Benché priva di una guida (im)morale sufficientemente autorevole nel Simone piuttosto legnoso di Renzo Ran in abiti vescovili, la truppa dei parenti di Buoso funziona bene nel complesso con le voci e la verve scenica dei santi e martiri di Marcello Nardis (Gherardo), Francesca Maionchi (Nella), Gianni Giuga (Betto), David Roy (Marco) e Sarah Richmond (la Ciesca), senza tralasciare la fragilità infantile del Gherardino di Ben Perkmann. Completa il cast Mattia Rossi, sobriamente farsesco come Spinelloccio e Amantio. E inseguita da un improbabile Dante Alighieri in cerca di vendette, nel finale riappare anche la musa inquietante del Pierrot Lunaire, che è la brava Alda Caiello in perfetto equilibrio nel recitare cantando di Schönberg. La musa è ancora e sempre all’opera.

Pubblico numeroso. Caldi applausi per tutti.

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