Alessio Bondì, Caetano a Palermo
Nivuru è il secondo lavoro del cantautore siciliano Alessio Bondì, tra tropicalismo in dialetto e afro funk
Un giorno qualcuno potrebbe fare uno scherzo a Caetano Veloso, padre nobile e inquieto della canzone tropicalista e di molte altre piccole invenzioni preziose in quel terreno magnificamente ambiguo che sta tra il songwriting d’autore e le venature popolari. Potrebbe d’improvviso sottoporgli , con un bell’impianto che faccia risaltare i particolari, "Ghidara", brano d’apertura del nuovo disco di Alessio Bondì.
Di sicuro Caetano avrebbe un discreto sturbo, e uno dei suoi sorrisi radiosi spianerebbe di colpo il bel viso invecchiato. Perché Bondì, mutatis mutandis (e c’è parecchio da cambiare, a molti livelli, tra le latitudini palermitane e la terra di Veloso finita sotto l’inquietante tallone di ferro di Bolsonaro) scrive in maniera sorprendentemente simile a Caetano. Quel brano in particolare ha tutta la radiosa sapienza che rende irresistibili certe canzoni del tropicalista, e questa è merce rara da trovare, nel trovarobato di chi compone canzoni.
Aiuta l’arrangiamento, un dosaggio omeopatico e perfetto di ritmo e timbriche orchestrali (quattordici i musicisti coinvolti, oltre ad Alessio Bondì stesso), e aiuta pure la lingua, con tutta l’insolente, pigra stropicciatura delle vocali e di raddoppi consonantici del palermitano, che sembra uno specchio puntuale del fraseggio in portoghese brasiliano di Veloso.
Se fin qui vi siete incuriositi, e mai avete ascoltato alcunché del barbuto songwriter di Palermo, dato che si tratta, come si suol dire, di personaggio di nicchia, ricorderemo che con Sfardo, il suo precedente disco, Bondì fu candidato alla Targa Tenco per il miglior album in dialetto. Forse, però, è anche il caso di lasciar perdere il concetto di “nicchia”, visto che i primi esiti del tour di questo disco ci riportano di un teatro, a Palermo, stipato di persone come se sul palco fosse salito Ligabue. E di un ondeggio di corpi, in sala, diretta conseguenza del rapinoso languore delle canzoni del nostro. Insomma, il procedere, come diceva Faber, “in direzione ostinata e contraria” rispetto al mainstream gorgheggiante e trap alle volte paga: anche se la fatica da fare è triplicata, quadruplicata.
Bondì ha dalla sua una calviniana leggerezza nell’essere una sorta di spugna vivente di sonorità: c’è il Brasile di cui dicevamo, cui conviene forse aggiungere, come riferimento, oltre a Veloso, anche l’attitudine folk rock di un Lenine, l’afro funk di Fela Kuti, la morna capoverdiana, il tocco dolente di certe ninnananne siciliane, un incedere morbido e giocato su scaltriti anticipi e ritardi che rivelano, anche, discrete ma sostanziali frequentazioni jazz.
I testi rivelano un osservatore curioso e onnivoro della realtà, con un’abilità notevole nel tratteggio di situazioni direttamente o indirettamente sensuali e avvolgenti. Provate a immaginare la traduzione di questi versi, da "Si fussi fimmina":
“Cu quali ossa t’è scutari / Cu quali aricchi tìè liccari / Cu quali lingua t’è tagghiari / Cu quali unghia t’è sunari / Nei nuttati insiemmula / I me amme in mienzu ai tue / Un sacciu cchiù quali su / Ma allura rimmillu tu / Cu quali amme ninn’è ghiri”.
Praticamente "Jamin-na" di De André, in corpo siculo.