L’omaggio di Venezia a Rossini con la Semiramide integrale
Al Teatro La Fenice va in scena una riuscita edizione della monumentale opera rossiniana riproposta senza i tagli della tradizione
Diciamolo subito: la Semiramide andata in scena al Teatro La Fenice è uno dei momenti forti dei molti eventi che hanno segnato l’anno del centocinquantenario rossiniano ormai prossimo alla conclusione. È evidente che Venezia non poteva non celebrare “in grande” il genio del pesarese essendo il luogo della sua consacrazione e del suo congedo dall’Italia prima dei trionfi parigini e del lungo autunno. E poi, nonostante la tradizionale attenzione riservata a Rossini nelle sue stagioni di repertorio (Il Barbiere e le farse giovanili sono presenze ricorrenti in cartellone), Semiramide, opera fenicea, mancava da troppo tempo nel teatro, dove comunque non è mai stata troppo presente: dopo la prima assoluta nel Carnevale del 1823, gli annali riportano allestimenti nel 1840, 1851 e 1992 per la stagione del bicentenario del teatro. Insomma, era ora.
Certo Semiramide è un’opera monstre per l’impegno che richiede in primo luogo ai suoi interpreti – necessariamente dei rossiniani al quadrato – ma anche a tutte le forze del teatro per le sue dimensioni smisurate. Alla Fenice si è deciso di raccogliere la sfida fino in fondo, presentando una versione integralissima come da partitura autografa conservata negli archivi del teatro, sopravvissuta a due incendi, debitamente restaurata e esposta nella Sala Ammannati per il periodo delle recite. Ripristinare tutti i recitativi e i numeri musicali nella loro integralità, alla prova dell’ascolto, non è sembrato un puro vezzo musicologico: è un modo di dare più coerenza e equilibrio allo sviluppo drammaturgico ma anche di restituire senso compiuto a figure chiave come Idreno, sublimazione estrema della vocalità tenorile rossiniana prima della svolta protoromantica, e alla stessa Azema, principessa contesa da tutti i protagonisti maschili (con buona pace della regina Semiramide, che invece nessuno si fila). Un senso che sfugge nelle versioni tagliate che solitamente vengono preferite.
Altro punto di forza della produzione veneziana, fondamentale, la qualità di un cast vocale nel suo complesso di grande caratura. E qui andrà lodata la prova estremamente convincente di Teresa Iervolino, che disegna con un mezzo vocale duttile e dai colori seducenti un Arsace di temperamento ma incrinato nell’aura eroica dai colpi di un destino inclemente. Folgorante anche la prova di Enea Scala come Idreno, particolarmente nella prima delle due grandi arie “Ah dov'è, dov'è il cimento” eseguita con grande scioltezza tecnica e forza anche nelle regioni più impervie, mentre in “La speranza più soave” si coglieva appena qualche segno di stanchezza. Bravissimo anche Alex Esposito nuovamente Arsace dopo Monaco, questa volta più tenebroso nel carattere ma con intatta esuberanza scenica, che culmina nella magistrale scena del secondo atto de “Il dì già cade … Deh ti ferma... ti placa... perdona”. Della Jessica Pratt cantante si può solo dire bene, ma la sua Semiramide fredda e distante stenta a diventare personaggio a tutto tondo e soprattutto soffre (e molto) nel confronto impietoso con le riuscitissime interpretazioni dei colleghi. Completano degnamente il cast Simon Lin, un Oroe cieco come Tiresia, Marta Mari, un’Azema tutt’altro che remissiva, Enrico Iviglia, un Mitrane baldanzoso, e Francesco Milanese, l’ombra di Nino di imponente gravità (e impersonato in scena da un fisicamente prestante mimo). Ai solisti si aggiunge la corposa prova del Coro del Teatro La Fenice, che si vorrebbe più incline alle sfumature in qualche passaggio più notturno. Stesso discorso vale per l’Orchestra e la direzione di Riccardo Frizza, che fa scorrere le quattro ore e mezza (intervallo compreso) con un passo avvincente, è sensibile alle ragioni del canto e al respiro monumentale dei passaggi corali, ma inonda di luce anche i recessi più oscuri.
Sul contrasto fra la luce dell’oro del primo atto e la tenebra della tomba di Nino del secondo è invece costruito l’allestimento di Cecilia Ligorio, che, forse per eccesso di timidezza nei confronti di una materia drammatica ricca di stimoli, plana su consuetudini melodrammatiche riproposte con una certa contemporanea sobrietà nel primo atto, mentre nel secondo non convince del tutto la svolta in chiave psichica. Una certa monumentale sobrietà si coglie anche nelle scenografie di Nicolas Bovey illuminate efficacemente da Fabio Barettin, nelle quali l’oro e il bianco che trionfano nella reggia di Semiramide trascolorano via via nel nero profondo del finale, mentre invece i costumi di Marco Piemontese passano dall’archeo-stereotipo areniano al banale contemporaneo (non basta un velo sotto al cappello per smaterializzare presenze fin troppo fisiche). Ridondanti le coreografie di Daisy Ransom Phillips.
Il pubblico non manca l’appuntamento con questo Rossini importante e soprattutto non mancano gli applausi calorosi a scena aperta e alla fine della lunga serata di musica.
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