Quando si pensa a Vivaldi viene subito in mente lo splendore della città di Venezia, ma la memoria della musica che è risuonata nella città lagunare esaltandone la sua fama risiede oggi nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, dove sono custoditi una grande quantità di preziosi manoscritti vivaldiani.
La storia della loro acquisizione è affascinante quanto quella di un romanzo, e non a caso il musicista Federico Maria Sardelli ne ha ricavato un avvincente racconto pubblicato da Sellerio nel 2015 con il titolo di L’affare Vivaldi. Una parte di questi manoscritti sono stati esposti nella mostra Vivaldimania. Una storia torinese organizzata nel 2008 nel Palazzo Bricherasio del capoluogo piemontese. Il suo catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale contiene scritti di Alberto Basso, Franca Porticelli, Sardelli, Annarita Colturato e Susan Orlando, che è la curatrice della collana discografica Vivaldi Edition realizzata dalla Naïve. La collezione di registrazioni affidate a diversi gruppi musicali avviata nel 2000 attinge a questa miniera di autografi vivaldiani che comprende circa quattrocentocinquanta composizioni, tra le quali si sono circa trecento concerti e una quindicina di opere. Con il cinquantaseiesimo volume da poco pubblicato il progetto ha raggiunto il traguardo di circa la metà del numero di cd che dovrebbero racchiudere tutte le musiche presenti nei manoscritti torinesi.
Per quanto possa sembrare incredibile, anche se abbiamo l’impressione di conoscere fin troppo bene il compositore, avremo ancora nuove musiche da ascoltare, e il doppio cd Vivaldi. Concerti per archi III e concerti per viola d’amore registrato dalla Accademia Bizantina è uno splendido esempio di questa importante impresa discografica ispirata da Alberto Basso.
Il secondo disco contiene gli affascinanti cinque concerti eseguiti da Alessandro Tampieri che definisce la viola d’amore ‘enigmatica e sfuggente’, strumento che Ottavio Dantone include fra quelli rari ai quali Vivaldi è riuscito a dare una interessante dignità solistica.
In questa intervista il direttore del rinomato ensemble ravennate ribalta i luoghi comuni che circondano il geniale e prolifico compositore veneziano.
La produzione musicale per viola d’amore è abbastanza rara.
«Per quanto riguarda questo strumento quella di Vivaldi è la più ampia. La viola d’amore è uno strumento esotico e misterioso, dal suono dolce e suadente. Non ha una accordatura fissa e si può adattare a seconda delle necessità, ma le tonalità più consone sono il re minore, il la minore e il la maggiore».
La musica di Vivaldi sembra piuttosto facile, ed è a questo proposito che spesso si cita l’aneddoto stravinskiano.
«Sicuramente la battuta di Dallapiccola ripresa da Stravinsky è molto simpatica ed è un bel gioco di parole [“Vivaldi non ha scritto quattrocento concerti, ma quattrocento volte lo stesso concerto”]. Tuttavia anche quando i suoi concerti sembrano assomigliarsi e dove c’è una vena creativa più immediata, le cose sono più complesse di quanto possa sembrare».
C’è ancora qualcosa da scoprire?
«C’è sempre qualcosa di nuovo ed è per me difficile dire che un concerto assomiglia all’altro. Vivaldi si vantava di scrivere più velocemente di un copista, ma questo non vuole dire che la sua musica sia banale. Riusciva a mettere sulla carta le idee musicali molto rapidamente, ma c’era un altro aspetto molto importante: il compositore sapeva che ciò che scriveva doveva poi essere espresso e anche abbellito».
«Il fascino della retorica e della teoria degli affetti è che non c’è un significato univoco, ma diversi possibili significati del modus operandi dei compositori dell’epoca. Suonando musica barocca è molto importante cercare di capire la logica del discorso, e bisogno entrare in quella psicologia e comprendere come ragionava il compositore. Si tratta di un gioco che non è la ricerca della verità, ma che consiste nel capire come si producevano le emozioni. Ci possono essere due esecuzioni bellissime anche se diverse tra loro, se il modus operandi è corretto. Il gioco sinestesico dell’immaginario barocco era ben chiaro al compositore».
Per una buona interpretazione della musica di Vivaldi non basta la filologia.
«Sarebbe bello far comprendere che la filologia non è non fare i tagli nelle opere, o suonare con l’arco barocco, ma è piuttosto far capire il linguaggio, i codici, i segreti, di ciò che è lontano da noi ma che possiamo ricostruire leggendo i trattati che parlano del rapporto tra musica e parola. Si tratta di un modo di pensare la musica, e non soltanto di usare gli strumenti antichi. Dal punto di vista di Stravinsky, e di Dallapiccola, la battuta aveva un senso, ma non hanno ascoltato il vero Vivaldi».
Dunque si tratta di un fraintendimento?
«Il fraintendimento di Vivaldi sta innanzi tutto nel non approfondire la scrittura e il tessuto musicale. Con la ricorrente presenza di progressioni e note ribattute è facile liquidare la sua musica come fine a se stessa e quasi sempre uguale. È un autore che in apparenza sembra, non dico banale, ma semplice. Lo è molto meno se andiamo ad analizzare come si dovrebbe eseguire. La sua è una musica estremamente ricca che non va liquidata così come appare, e magari piuttosto che concentrarsi sulla parte dei violini bisognerebbe prestare attenzione a quella delle viole».
«Nella musica di Bach è più facile capire il significato, perché le strutture sono estremamente chiare, ma in Vivaldi c’è spesso qualcosa che è nascosto o è in secondo piano e che va messo in evidenza attraverso l’interpretazione. Credo che più la musica sembra orizzontale e priva di verticalità e di complessità, più sia necessario mettere in evidenza quello che si deve saper leggere tra le righe. L’interpretazione consiste in quello che sembra si possa leggere nel testo. Anche con Rossini, nelle parti interne ci sono elementi che servono a mettere in luce quelle principali».
Quindi Vivaldi va letto tra le righe.
«Mettendo in evidenza la parte delle viole si mette ancor più in risalto quella dei violini. Non dimentichiamo che i grandi musicisti che suonavano gli strumenti ad arco amavano suonare la parte della viola che si trova al centro dell’armonia, e che ha la funzione di completarla. Ai musicisti che si intendono di armonia piace mettere in risalto le parti nascoste…».
A proposito di cose nascoste o misteriose, talvolta in Vivaldi compaiono ritmi molto originali.
«Quello che colpisce nelle strutture ritmiche è una certa asimmetria, come ad esempio 3+2 o 4+3, che hanno richiami con strutture ritmiche non usuali e non occidentali. Ci sembrano moderne anche perché va considerato che Venezia era un crocevia culturale, dunque la sua musica potrebbe aver ricevuto influenze provenienti dall’area austriaca, boema, e inoltre nell’uso della melodia troviamo delle suggestioni provenienti dal vicino Oriente. Ma non ci sono omaggi dichiarati a culture particolari, e quando tutto sembra convenzionale ogni tanto c’è qualcosa che prende direzioni inusitate. Anche dal punto di vista armonico Vivaldi appare italiano ma in alcuni momenti compaiono armonie che sembrano astratte. Penso a un Adagio che paradossalmente forse neppure Wagner avrebbe potuto immaginare, quello del Concerto in fa maggiore RV 138 o per esempio al Largo del Concerto in la minore RV 161. Tutto questo rappresenta una voglia di stupire e di andare oltre la tradizione, oltre le convenzioni del suo tempo... La musica di Vivaldi è immediatamente riconoscibile per lo stile, che è costituto da numerosi salti. Dobbiamo ricordare che scriveva anche per i turisti ai quali vendeva la sua musica, e pochi autori sono riconoscibili come Vivaldi».
Nel primo disco di questo doppio album ci sono dei concerti per archi che fino a ora erano stati trascurati dal cantiere della Vivaldi Edition.
«Il primo è l’RV 167 che per alcuni è riconoscibile quasi come un pezzo pop. Ha la struttura di un rondò e ha il tema che si ripete e ricorre in continuazione, ma ce ne sono altri simili con questo tipo di struttura. Prima di tutto è geniale l’immediatezza della proposta ritmico melodica, e poi sono trascinanti i collegamenti tra le ripetizioni del tema affrontati con sfumature sempre diverse. C’è qualcosa di molto sottile che può sfuggire se non si osserva con attenzione».
«Credo che questo disco sia la conferma di una mia teoria molto personale. Questi concerti erano stati lasciati per ultimi forse perché considerati meno interessanti. Ma non esiste musica brutta nel periodo barocco, ma solo suonata male o comunque non correttamente. Le emozioni sono espresse anche attraverso semplici melodie come una scala di cinque note, e l’interpretazione è un lavoro che parte da un approccio scientifico per arrivare ad una emozione che può essere anche piuttosto violenta».
«Non esiste musica brutta nel periodo barocco, ma solo suonata male o comunque non correttamente».
«Per la musica del periodo romantico l’esecutore deve provare un coinvolgimento emotivo per restituirne adeguatamente i contenuti, ma nel caso di questa musica è diverso. Il sentimento è una parola che nel barocco non esiste, e dobbiamo pensare alla dispositio del canone della retorica. La mia interpretazione è impersonale, nel senso che leggo esattamente quello che è scritto, posso sottolineare o esasperare quello che vedo, ma è tutto scritto».
A metà novembre verrà distribuito anche un altro disco della Vivaldi Edition che avete registrato nella primavera di quest’anno.
«Si tratta dell’opera Il Giustino che venne rappresentata a Roma nel 1724, un capolavoro assoluto. Molti dicono che Vivaldi non era un buon operista, ma credo che ascoltandolo si potrebbe e si dovrebbe cambiare idea. Si tratta di una esecuzione "filologica" ma penso che per lo spettacolo dell’ascolto di un disco si debba vedere l’azione anche quando l’azione non c’è, ed è per questo che dedico una cura particolare ai recitativi. Ma ho inserito anche alcuni effetti sonori, come il rumore del mare, un tuono e il verso di un vero orso…».