I fascinosi contrasti del Festival Verdi
A Parma Macbeth,Le trouvére e Attila: confronto tra diverse visioni del teatro d’opera
Il Festival Verdi che sta andando in scena in questo mese di ottobre offre diversi spunti di riflessione sulle differenti letture dell’opera verdiana, sia dal punto di vista della visione scenica sia da quello dell’interpretazione musicale, rafforzando quella pluralità di visioni che da ormai qualche anno connotano questa manifestazione.
Un dato, questo, sicuramente qualificante per un festival che voglia dirsi tale, inaugurato quest’anno dal Macbeth nell’edizione critica di David Lawton che recupera la prima versionedel 1847, la quale ci regala un immaginario drammaturgico verdiano forse più acerbo rispetto alla revisione parigina del 1865 compilata alla ricerca di “brevità e sublimità”, ma ne restituisce con meritorio intento le suggestioni primigenie. La messa in scena di quest’opera, che abbiamo seguito al Teatro Regio in occasione dell’inaugurazione del cartellone, è stata caratterizzata da un lato dalla lettura scenica cupa e densa proposta dalla regia di Daniele Abbado e dall’altro dall’interpretazione musicale riflessiva di Philippe Auguin alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini coadiuvata dall’Orchestra Giovanile della Via Emilia. L’atmosfera immaginata da Abbado ha rievocato una Scozia fatta di pioggia e nebbia, dove un destino ineluttabile incombe sui personaggi in scena come incombente è il magma rappresentato da una sorta di nuvola nebulizzata che, come materia continuamente cangiante grazie alle ottime luci di Angelo Linzalata, sovrasta l’azione in un efficace e suggestivo giuoco di contrasti tra densità e impalpabilità. Un carattere, a tratti solo un poco ridondante, che ha segnato questa messa in scena tratteggiata per il resto dagli ambienti austeri e lineari disegnati con efficacia dalle scene che evocavano ora trasparenze opaline dalle quali balenavano le apparizioni, ora compatte e claustrofobiche mura di cemento e rame, trappola senza uscita per Macbeth e la consorte. Tra i personaggi in scena, vestiti dai bei costumi di Carla Teti, Luca Salsi ha restituito il ruolo eponimo in modo vocalmente sicuro fino ad essere a tratti un poco eccessivo in quanto a gestualità, mentre la Lady di Anna Pirozzi è parsa monolitica nella sua solida espressività vocale. Tra gli altri da citare l’elegante Banco di Michele Pertusi, mentre compatto si è confermato il coro preparato da Martino Faggiani. L’altro elemento caratterizzante questa messa in scena, si diceva, è stata la direzione di Auguin che, con il suo incedere misurato, ha segnato un passo musicale che, se ha indagato le pieghe di questa prima versione dell’opera verdiana, ne ha smorzato il senso plastico di caduta sempre più incombente dei protagonisti verso il baratro in favore di un certo lineare distacco. Il pubblico della “prima” ha regalato un bel successo ai cantanti – peraltro Salsi e Pertusi “giocavano in casa” – mentre un cenno di incomprensibile dissenso è stato rivolto alla regia di Abbado.
Seconda proposta di particolare interesse è stata rappresentata da Le trouvère, altra edizione critica a cura di Lawton qui eseguita in prima assoluta, che ha rievocato nel particolare scenario del Teatro Farnese la versione dell’opera che Verdi pensò nel 1857 per l’Opéra di Parigi. Anche qui lettura musicale e messa in scena hanno delineato un originale connubio tra l’elegante direzione di Roberto Abbado e l’essenziale visionarietà della messa in scena di Robert Wilson – supportato da Nicola Panzer (co-regia), Stephanie Engeln (scene) e Solomon Weisbard (luci) – realizzando in questo caso un’alchimia dal raro ed efficace equilibrio. Alla guida dell’Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, il direttore ha saputo plasmare un’interpretazione capace di mantenere un segno espressivo di raffinata finezza, riuscendo a coniugare le tensioni drammatiche della partitura con la valorizzazione di quelle parti che connotano questa versione parigina, offrendo anche al versante vocale uno spazio ben delineato. Sul palcoscenico emergono quindi il nobile Manrique di Giuseppe Gipali, forse di tanto in tanto in secondo piano, la solida ed elegante Léonore di Roberta Mantegna, lo sfaccettato Comte de Luna di Franco Vassallo e la vivida Azucena di Nino Surguladze, protagonisti di un intreccio che sulla scena trascende la pedissequa narrazione grazie all’astrazione essenziale immaginata da Wilson. La poetica del drammaturgo americano, infatti, ha proposto anche in questa occasione la sua ormai classica visione di un teatro che si nutre di misuratissima gestualità orientale, costumi dalle linee nette e scultoree, personaggi mutamente evocativi e situazioni spiazzanti – la donna con la carrozzina e le bambine in scena da un lato, la rincorsa a tratti comica dei boxeur in luogo del balletto dall’altro – il tutto stagliato su un fondale fatto di ricercate alternanze tra immagini e colori affilati e compatti. Un mondo astratto ma denso di rimandi che libera una rinnovata immaginazione capace di offrire un’originale visione contemporanea del teatro d’opera. Una visione scenica che anche in questo caso il pubblico ha salutato con qualche perplessità, riservando invece un buon consenso al versante musicale.
Una messa in scena che ha decisamente appagato gli spettatori del teatro Regio, infine, è stata quella proposta per l’Attila – questa volta l’edizione critica è a cura di Helen M. Greenwald – firmato dalla regia di Andrea De Rosa e dalla direzione di Gianluigi Gelmetti. In questo caso la messa in scena, seppure non delineata per tempo e luogo, ha proposto ambientazioni e atmosfere dalla tradizionale connotazione, funzionali ad una narrazione con poche sfumature, dove il protagonista è apparso monolitico nella sua malvagità, lontano dai rovelli interiori che in qualche modo segnano il personaggio immaginato da Verdi. Nei panni di Attila abbiamo trovato un Riccardo Zanellato vocalmente solido ed espressivamente autorevole, affiancato con buon impegno dalla Odabella di Maria Josè Siri e dall’Ezio di Vladimir Stoyanov. Gelmetti ha diretto le compagini della Filarmonica Toscanini e del Coro del Regio con un segno interpretativo deciso e stringato, a tratti spiccio nel tratteggiare tempi ed equilibri strumentali, ottenendo effetti dall’impatto risoluto ma un poco drastico. Un altro Verdi, un’altra visione del teatro lirico, insomma, come è giusto che sia nell’ambito di un festival che vuole proporre il fascino dei contrasti che abitano le mille declinazioni possibili dell’opera ai giorni nostri.
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