Météo, previsioni per un jazz futuro

Reportage dal Météo Festival di Mulhouse, cinque giorni di musiche avventurose in Alsazia

Peter Evans Ensemble (foto di Sébastien Bozon)
Peter Evans Ensemble (foto di Sébastien Bozon)
Recensione
jazz
Mulhouse
Météo 2018
21 Agosto 2018 - 25 Agosto 2018

Jazz e altre avventure sonore, questa la dichiarazione di appartenenza del festival alsaziano in una Francia che sa di Svizzera (Basilea dista solo 30 chilometri). Il Météo per cinque giorni ha offerto concerti dal mattino alla sera all’insegna di una idea di musica e di comunità totale da cui anche i nostri organizzatori in Italia forse dovrebbero prendere spunto.

Certo, le istituzioni in paesi come la Francia non sono sorde come le nostre, e avere il supporto della politica, anche economico, non guasta affatto. Ciò che colpisce maggiormente però della cinque giorni francese è questa idea di musica senza tempo e senza età, proposta ai bambini nei concerti delle 11.30 di mattina (chissà quanti dei passati spettatori in pannolone sono poi diventati fruitori adulti delle musiche non convenzionali qui proposte), per poi passare giusto a fianco alla cappella Saint Jean con i soli (letteralmente straordinari in un paio di occasioni). Al pomeriggio poi, tutti, con un servizio di bus navetta gratuito negli spazi prima del DMC (bell’esempio di archeologia industriale riadattata ad ambiente per eventi) per chiudere poi la sera al Noumatrouff, un club informale non così lontano dal nostro Leoncavallo o da altri centri sociali ben rodati.

Ho assistito a venticinque concerti, per cui per ovvi motivi non starò qui a raccontarveli tutti nel dettaglio, tralasciando la stragrande maggioranza di quelli ovviabili quando non irritanti. Picchi altissmi, una qualità media notevole (alta come l'età del pubblico) e uno spettro amplissimo di proposte, per una kermesse che definire straordinaria non è di certo un’iperbole. Smaltito l’inizio decisamente in sordina con l’impro senza capo né coda dei Puk da Strasburgo all’Ufficio del Turismo, il martedì vede la defezione di Keith Tippett, sostituito da un ottimo Pat Thomas che in un recital di solo piano dedicato esclusivamente a Monk ci mostra tutti gli spigoli e gli specchi della casa di Thelonious: classicità rivisitata da nuovi punti di vista, il nitore imperfetto di certe melodie decostruito con metodo e follia.

A seguire la classe e l’energia soulful del David Murray Infinity Quartet, con Orrin Evans (nuovo membro di The Bad Plus) in bella evidenza al pianoforte e l’ottimo Jaribu Shahid, già nell’ultima incarnazione di Art Ensemble of Chicago, al contrabbasso. Sulle partiture vibranti e perfettamente sospese tra free storico ed un sentimento blues denso e consapevole, si staglia netta e incisiva la spoken poetry di Saul Williams, per un concerto che, senza nulla togliere alla grande personalità dei musicisti qui coinvolti (statuario il leader, con un suono pieno e caldo, e una presenza discreta in quanto a minutaggio ma sempre molto carismatica) ha ricordato gli indimenticabili momenti di Amiri Baraka con i gruppi di William Parker.

La prima vetta, ad altezze dove l’ossigeno forse non arriva, viene però raggiunta il mattino dopo con il solo di un alieno che risponde al nome di Peter Evans. Il trombettista lascia semplicemente sbalorditi per ciò che riesce a tirare fuori da una tromba microfonata senza alcun effetto, dimostrando di essere perfettamente a proprio agio sia con tutto il vocabolario delle tecniche estese (a un certo punto sembra di sentire un sax baritono) sia con una conoscenza sterminata di quanto può rispondere al nome di jazz per una mente aperta e proiettata nel futuro, pur mantenendo ben salde le radici nel passato. Un concerto fantasmagorico, che tra qualche mese avremo la fortuna di avere dalle nostre parti.

Peter Evans (foto di Sébastien Bozon)
Peter Evans (foto di Sébastien Bozon)

Suggestivo e avvolgente anche il solo per koto (una sorta di gigantesca arpa orizzontale giapponese) di Michiyo Yagi, tra astrazioni zen, delicate folate minimaliste, sfuriate noise ed una inaspettata cover finale di Nick Drake. Deludente invece il concerto di Ahmed, il quartetto franco-inglese-svedese con Pat Thomas al piano, funestato da un sassofono irritante e minimalista senza riuscire a essere mai ipnotico. Più energico e rock, in chiusura del mercoledì, il set di improvvisazione dei Nimmersatt, con Chris Cutler e Charles Greaves di Henry Cow e mille altri progetti, con Daan Vandewalle a piano e organo e John Rose al violino, anche se al blasone dei nomi coinvolti non corrispondono emozioni di pari livello.

Michiyo Yagi (foto di Sébastien Bozon)
Michiyo Yagi (foto di Sébastien Bozon)

Molto buono il duo della Yagi con Tony Buck, il batterista di The Necks, dove in un set di pura improvvisazione in diversi momenti si raggiunge la stessa estasi immobile che in tante occasioni gli australiani ci hanno fatto assaporare.

Altra vetta assoluta del festival tutto è l’esibizione finale del mercoledì sera dei Senyawa, da Yogyakarta, Indonesia: un indefinibile incrocio tra ritualità arcaica, rumorismo, demoni folk, graziato da una voce iper espressiva, capace di trasfigurarsi in mille maschere, e cordofoni tra l’autocostruito e il tradizionale che suonano come macchine di un futuro remoto e antichissimo. Brividi.

I demoni che i Senyawa hanno tenuto a bada la sera prima sono stati invece convocati in assemblea plenaria dal violinista John Rose il giorno dopo in una memorabile esibizione in solo, dove, nel largo respiro di una suite accompagnata da una base preregistrata, il musicista ha sciorinato alfabeti di lingue incomprensibili e bellissime, muovendosi tra rigori novecenteschi e ansie sperimentali, dandoci un perfetto esempio di violino parlante. Molto bella anche l’esibizione dell’austriaco Wolgfang Mitterer per organo da chiesa ed elettronica nella chiesa di Sainte-Marie, dove un folto pubblico ha preso parte ad una sorta di messa per quest’epoca persa e disperatamente secolarizzata, con il compositore officiante di cerimonia nascosto dietro l’imponente organo.

Molto deludente invece il duo tra Charles Hayward e Tony Buck, batterie e chitarra, per un incontro che non è stato di certo pari alla somma delle due individualità, anzi. Molto meglio vanno le cose con l’Africa ipnotica e minimale di A Pride of Lions, con due contrabbassi, due sassofoni (ad uno di questi il grande Joe Mc Phee) e una batteria (Chad Taylor, che comunque preferiamo nei progetti con Rob Mazurek), mentre francamente non ci spieghiamo l’hype che circonda i Sons of Kemet di Shabaka Hutchings. Divertenti, ballabili, curiosa la formula con sassofono, tuba e due batterie, ma i pezzi sono monodimensionali e poco profondi, e dopo poco la noia la fa da padrone.

A Pride of Lions
A Pride of Lions (foto di Sébastien Bozon)

Sopravvissuti a ben due concerti di Splitter Orchester, un ensemble plurinazionale di 24 musicisti capace di mettere a durissima prova la tolleranza di chi scrive (e vi assicuro che sono disposto ad ascoltare veramente di tutto) con due esibizioni al limitare del silenzio e della gratuità, si arriva il sabato sera al gran finale con due concerti strepitosi: prima l’ensemble di Peter Evans, con Jim Black alla batteria, Sam Pluta all’elettronica (fantastico a dir poco), Tom Blancharte al contrabbasso e Mazz Swift a violino e voce; impossibile descrivere quanto ascoltato, una indagine sul futuro del jazz, forse, e comunque una musica suonata con un controllo e una libertà strabilianti, capace di racchiudere, come in un vaso di Pandora finalmente totalmente scoperchiato, mistero, senso di urgenza, sete di nuovi linguaggi, bellissimi torri di Babele, e chissà cos’altro. Un’ulteriore conferma del fatto che Peter Evans è uno dei musicisti più completi ed innovativi degli ultimi anni.

Splitter Orchester (Foto di Sébastien Bozon)
Splitter Orchester (Foto di Sébastien Bozon)

Chiudono la fluviale rassegna This is Not This Heat, ovvero i leggendari This Heat, da Londra, risorti dalle ceneri, dopo 40 anni, e con un nuovo assetto a sei: un concerto che ha ripercorso filologicamente le tappe della breve ma fertile carriera della band, regalando emozioni ai presenti, ancora pronti a farsi trafiggere da un suono che era avanti nel 1979 e quindi ora è perfettamente contemporaneo ed è stato degnissima chiusura per un festival a cui abbiamo già voglia di tornare.

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