Trent’anni di belcanto nella Foresta Nera

Rossini in Wildbad celebra i suoi trent’anni con un poker operistico rossiniano e la cantata “Le nozze di Teti e Peleo”

L'equivoco stravagante
L'equivoco stravagante
Recensione
classica
Wildbad
Rossini in Wildbad
26 Luglio 2018 - 29 Luglio 2018

Festeggia trent’anni il festival Rossini in Wildbad, proprio quando del suo nume tutelare si commemorano ovunque i 150 anni. L’equipaggio guidato con incrollabile entusiasmo da Jochen Schönleber è cresciuto ma non troppo nel corso del tempo e continua saldamente a rinforzare le fondamenta di questo anomalo fortino del belcanto in terra tedesca. La formula non cambia anche se, nell’anno rossiniano, Rossini ovviamente fa cappotto e occorrerà quindi aspettare le prossime edizioni per allungare la lista delle gustose riscoperte delle edizioni passate di Balducci, Vaccaj, Pacini, Mercadante, Mayr o von Lindpaintner.

Nel piatto dell’edizione 2018 ci sono due opere buffe (La cambiale di matrimonio e L’equivoco stravagante) e due serie (Zelmira e Moïse et Pharaon), testimonianze del Rossini degli esordi e di quello più maturo dell’addio a Napoli e dei successi parigini. Oltre a vari concerti – fra questi, la Petite Messe Solemnelle condotta dal direttore musicale del festival Antonino Fogliani nella struttura lignea del Baumwipfelpfad, il camminamento sospeso fra le cime degli alberi nella foresta che circonda la cittadina termale – anche la perla rara dell’azione coro-drammatica Le nozze di Teti e Peleo del 1816.

 

Si tratta di un lavoro composto (o, meglio, assemblato) da Rossini nel 1816 per rispondere alla richiesta del re di Napoli Ferdinando IV. L’occasione furono le feste per le nozze della nipote Maria Carolina con Charles Ferdinand, duca di Berry e figlio di quel futuro re Carlo X, destinatario di un altro e più noto omaggio rossiniano, ossia Il viaggio a Reims. Pietro Rizzo guidava un cast che vedeva in scena gli svettanti tenori Mert Süngü come Peleo e Joshua Stewart come Giove, la brava Eleonora Bellocci come Teti e Marina Comparato come Giunone. Nel cast anche il soprano Leonor Bonilla, che strappava applausi entusiastici nell’acrobatica aria di Cerere con coro “Ah non potrian resistere”, autoimprestito dal “Cessa di più resistere” del Barbiere e più tardi lussuoso riciclo nel rondò “Non più mesta” del finale della Cenerentola.

Ai futuri cantanti rossiniani pensa da anni la BelCanto Akademie affidata a due rossiniani doc come Raúl Giménez e Lorenzo Regazzo. Se il buongiorno si vede dal mattino, il saggio finale di Rossini & Co. degli allievi (e non solo) della masterclass di Regazzo promette un futuro rossiniano radioso. Fra molti frutti non ancora maturi, si imponevano le prove della fiorentina Eleonora Bellocci in una folgorante esecuzione dell’aria della Contessa di Folleville “Partir, o ciel!, desio” dal Viaggio a Reims e del romano Roberto Maietta, vecchia conoscenza di Bad Wildbad e carriera già ben avviata, travolgente nella celebre cavatina di Figaro e spiritosissimo Germano nel duetto “Io so ch’ai buon cuore” dalla Scala di seta. Interessanti anche i due tenori Sebastian Monti, ancora un po’ trattenuto nella “Concedi amor pietoso” dall’Italiana in Algeri, e Xiang Xu svettante nell’aria di Idreno “Ah, dov’è, dov’è il cimento” dalla Semiramide ma troppo scoperto e con più di una forzatura nel registro più spinto.

Saggio a parte, Lorenzo Regazzo partecipava anche nell’insolita veste di regista alla Cambiale di matrimonio, allestita nel piccolo Teatro reale delle Terme. Allestimento in economia secondo le abitudini della casa, ma fin troppo generoso di gag animate dallo stesso Regazzo nei panni di un parodistico epigono degli eccessi insensati del Regietheater di marca tedesca fra gli sguardi, probabilmente basiti, della tetralogia di mostri sacri Visconti, Strehler, Zeffirelli e Enriquez, ironicamente protetti da una tendina tirata a inizio rappresentazione. L’esilissima trama della farsa viene continuamente interrotta dalle incursioni del sadico regista, che impone varianti scatologiche e sessuomaniacali fino a provocare la sacrosanta rivolta delle vittime. Nel giovane cast, fatto in buona parte di borsisti dell’Akademie BelCanto, eccellenti sono soprattutto i due buffi: quello “nobile”, ma senza esagerare, di Roberto Maietta, l’americano Slook in versione cowboy con mutande nazionaliste, e quello “caricato”, ma con una certa eleganza, di Matjia Meić, “papà” Mill un po’ sovrappeso e per questo nel mirino del fanatico regista. Servono con onore i rispettivi ruoli anche tutti gli altri: Eleonora Bellocci, una Fanni languorosa e timorata di Dio, Xiang Xu, un Milfort non troppo di grazia, e Maria Rita Combattelli con Javier Povedano Ruiz, spigliata coppia di servitori Clarina e Norton. Spigliata e vivace anche la direzione di Jacopo Brusa e degli interventi del maestro al fortepiano Gian Luca Ascheri, che aggiungeva divertimento con spiritose divagazioni musicali.

La cambiale di matrimonio

“Come può un povero maestro di musica sopra una poesia che non presenta se non idee sconce adattarvi una musica che incanti, che rapisca? Non ostante questo, ha saputo in alcuni pezzi distinguersi il Sig. Rossini con molta lode”, scriveva il cronista del Redattore del Reno all’indomani della prima del dramma giocoso in due atti L'equivoco stravagante, parentesi bolognese delle prime farse in un atto veneziane e non troppo fortunata per via dei versi di Gaetano Gasbarri infarciti di doppi sensi e di un certo umorismo di grana grossa che la fecero sparire dalla circolazione dopo sole tre recite. Materia che sembra un invito a nozze per il regista Jochen Schönleber, che importa nel suo festival la produzione realizzata per l’Opera di Stato di Ruse in Bulgaria: non mancano certo le sguaiataggini e le sottolineature scurrili sulle già esplicite allusioni del libretto, ma la linea musicale imposta da José Miguel Peréz-Sierra si muove saggiamente nel terreno della leggerezza e del brio così che il Sig. Rossini ne esce con molta lode anche in questo spettacolo. Lodi anche a una distribuzione vocale ben assortita, con in testa un contralto rossiniano di razza come Antonella Colaianni per Ernestina, seguita dai due buffi marcatamente sopra le righe di Giulio Mastrototaro (Gamberotto) e Emanuel Franco (Buralicchio), un tenore con qualche gradevole sfumatura lirica di Patrick Mubenga (Ermanno) e la vivace coppia di servi di Sebastian Monti (Frontino) e Eleonora Bellocci (Rosalina). Anche la componente maschile del Górecki Chamber Choir, che il regista ha voluto in abiti femminili, sembrava divertirsi non poco.

L’equivoco stravagante

Ci vuol davvero un gran coraggio a mettere in cartellone due opere come quelle scelte quest’anno per il Rossini serio. In particolare Zelmira, l’opera dell’addio a Napoli, è un lavoro complesso, per certi versi sperimentale e una vera sfida per i tre cantanti protagonisti, ai quali si richiedono doti fuori dal comune (ma anche i ruoli minori non sono al riparo dalle difficoltà tecniche). Dopo l’Eduardo e Cristina della scorsa edizione al timone di questa nuova impresa rossiniana presentata in versione concertante si ritrovava Gianluigi Gelmetti, che guidava con autorità la lunga partitura impiegando la sua lunga e consolidata esperienza direttoriale. Sul piano vocale, nonostante qualche debolezza, gli interpreti riservavano più di una sorpresa e nel complesso si imponevano per pulizia stilistica. Primeggiava la Zelmira di Silvia Dalla Benetta, capace di piegare la tecnica alle esigenze espressive del ruolo che caratterizzava con efficacia crescente. Nell’impossibile ruolo di Ilo, Mert Süngü esibiva un buon controllo della tessitura più spinta, mentre Joshua Stewart metteva al servizio di Antenore un mezzo vocale plastico e dal bel colore scuro, sporcato solo dalla tendenza a forzare troppo sugli acuti, talora sfocatissimi. Poche sorprese nel resto del cast che comprendeva Federico Sacchi (Polidoro), Luca Dall’Amico (Leucippo), Xiang Xu (Eacide) e Emanuel Franco (Il gran sacerdote di Giove), ma Marina Comparato (Emma) si imponeva con autorità nella sua scena “Ciel pietoso, ciel clemente”.

In forma scenica, invece, veniva proposto il Moïse et Pharaon. Moïse è un lavoro di grande respiro che si esprime già con la lingua del nascente grand opéra e privarla della fondamentale componente spettacolare ne compromette fatalmente l’equilibrio. Negli spazi costretti della Trinkhalle, soffriva non poco questo Moïse allestito da Jochen Schönleber con l’oramai consueta attualizzazione agli insolubili conflitti mediorientali nei costumi di Claudia Möbius e soprattutto nei video assemblati da Anton Kaun con immagini di reportage bellici. Soffriva anche e soprattutto per una certa approssimazione nella direzione attoriale e per la modestia di alcune soluzioni (in particoalre i balli del terzo atto con il coro impegnato in movimenti che sanno di ballo popolare). Molto meglio l’esecuzione musicale, affidata a un’altra bacchetta di lungo corso come Fabrizio Maria Carminati, anche se si notava un certo sbilanciamento nella resa complessiva dell’articolata componente vocale. Ancora una volta brillava Silvia Della Benetta come Sinaïde che, con il notevole Aménophis di Randal Bills, firmava una formidabile chiusa del secondo atto con “Ah, d’une tendre mère”. Nettamente più debole la componente ebraica, che aveva in Alexej Birkus un Moïse di pochissimo carisma e con un declamato afflitto da una dizione del tutto incomprensibile. A Elisa Balbo vanno sicuramente riconosciute buone doti e un grande impegno, ma la sua Anaïs era fredda e non del tutto efficace sulla resa drammatica. Fra i ruoli minori, si facevano apprezzare soprattutto la sensibile Marie di Albane Carrere e l’elegante Eliézier di Patrick Kabongo Mubenga. Tralasciando una certa diffusa sciatteria nei movimenti scenici, il Górecki Chamber Choir serviva dignitosamente la partitura pur senza avere il peso specifico adatto per un’opera come il Moïse in cui il coro è davvero protagonista.

Come da anni, anche quest’anno a Bad Wildbad i Virtuosi Brunensis assicuravano una buona qualità nell’accompagnamento orchestrale per tutti gli spettacoli in programma con un impegno pressoché quotidiano. L’esperienza professionale in un teatro di repertorio come l’Opera Janacék di Brno, nella quale servono la gran parte dei Virtuosi, si conferma un’ottima palestra ma alla qualità del festival gioverebbe probabilmente l’apporto di compagini strumentali ed esperienze musicali diverse. Chissà che la visita tributata al festival dal Segretario di Stato alla cultura del Governo federale tedesco, Petra Olschowski, non sia un buon segno per un impegno finanziario maggiore, oltre a quello assicurato dal governo del Baden-Württemberg, per altri ancor più luminosi trent’anni di belcanto nella Foresta Nera.

 

Estratto delle prove di Moïse et Pharaon

 

 

 

 

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