Il Teatro Real oltre il bicentenario

Joan Matabosch, direttore artistico del Teatro Real di Madrid, racconta la stagione 2018/2019

Joan Matabosch (foto Javier del Real / Teatro Real)
Joan Matabosch (foto Javier del Real / Teatro Real)
Articolo
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Le celebrazioni per il doppio anniversario del Teatro Real di Madrid sono ormai giunte al culmine. In questi tre anni la direzione del teatro ha offerto cartelloni ambiziosi e costellati di nuove produzioni, riuscendo a ben sfruttare la ricorrenza che riunisce in un unico colpo il bicentenario dalla posa della prima pietra del teatro nel 1818 (anche se la costruzione si protrasse fino al 1850, quando avvenne la vera inaugurazione) e il ventennale dalla riapertura nel 1997 dopo lunghi lavori di restauro e consolidamento strutturale.

Il direttore artistico Joan Matabosch ha accettato di parlarci della prossima stagione 2018/2019 e del gran momento che sta vivendo il suo teatro.

Teatro Real Madrid

Che cosa le piacerebbe sottolineare del suo prossimo cartellone?

«Sicuramente il fatto che su un cartellone di quindici titoli proporremo ben dieci nuove produzioni, tra cui una prima assoluta commissionata in collaborazione con il Teatro Nacional Español – Je suis narcissiste, un’opera buffa della giovane compositrice Raquel García Tomás – e tre prime esecuzioni spagnole: l’ultima opera di Kaija Saariaho, Only the Sound Remains, Com que Voz di Stefano Gervasoni e l’oratorio di Roberto Gerhard, La Peste, che sarà proposto in una nuova concezione scenica ideata da Dora García, una delle nostre artiste più in vista, a cui proprio in questi giorni il Museo Reina Sofía sta dedicando una mostra».

«Con la crisi economica, anche qui in Spagna abbiamo avuto un tracollo delle sovvenzioni pubbliche, ma è stata l’occasione per riformare a fondo il sistema produttivo dei teatri d’opera che non era più sostenibile».

«Quanto agli altri nuovi allestimenti in cui partecipiamo alla produzione, avremo Faust di Gounod, con la regia Alex Ollé della Fura dels Baus, Falstaff con Daniele Rustioni e Laurent Pelly, Idomeneo con Ivor Bolton e Robert Carsen, un nuovo Trovatore con un cast eccezionale – Meli, Agresta, Semenchuk, Tézier – e Capriccio di Strauss, che non s’è mai dato finora a Madrid. Ma, tra le sette nuove produzioni che debutteranno da noi, vorrei soprattutto segnalare la Turandot con la regia di Robert Wilson, che proietta quest’opera nel Novecento e nel simbolismo del teatro moderno, liberandola da tante incrostazioni kitsch».

Anche tra le produzioni ospiti non mancano le cose interessanti.

«Sì, infatti, proporremo a Madrid il Ring “ambientalista” di Robert Carsen, iniziando quest’anno con L’Oro del Reno, poi Didone ed Enea di Purcell nella produzione di Sasha Waltz, e la Calisto di Cavalli, nell’allestimento di David Alden per Monaco. Infine, tra le opere in forma di concerto avremo Agrippina di Handel, con Joyce Di Donato e Franco Fagioli e, per la prima volta al Teatro Real, la Giovanna d’Arco di Verdi, con Domingo nella parte di Giacomo.

Insomma, una programmazione quanto mai varia. In Italia, invece, negli ultimi tempi si è avvertita una tendenza a restringere il repertorio, per non correre rischi al botteghino e ripianare i conti. Com’è la risposta del pubblico alle proposte del suo teatro?

«Abbiamo avuto un’occupazione media del 92% nel 2017 e quest’anno mi pare siamo sul 96%, quindi posso dire che la risposta è molto buona. Non mi sembra che cambiando la programmazione si possano risolvere problemi di bilancio. Si tratta piuttosto di problemi strutturali, di gestione, di una sproporzione che esiste tra costi enormi di produzione e i risultati. Con la crisi economica, anche qui in Spagna abbiamo avuto un tracollo delle sovvenzioni pubbliche, ma è stata l’occasione per riformare a fondo il sistema produttivo dei teatri d’opera che non era più sostenibile, reinventandolo e lavorando su questi scompensi che condannano i teatri a una condizione di crisi continua».

A questo proposito, qual è la sua opinione del progetto di fusione di cui si è discusso ultimamente tra il Teatro Real e il Teatro de la Zarzuela?

«Il progetto è stato sospeso dal nuovo governo ed effettivamente dietro all’operazione che avrebbe comportato una fusione dei due organismi c’erano delle grandi difficoltà di tipo amministrativo, legate anche a uno scontro di due mentalità produttive, essendo il Teatro de la Zarzuela un teatro gestito completamente dallo Stato, mentre noi siamo una fondazione. Ci sono state molte polemiche. È una questione delicata e complessa, ed è un bene che si sia preso tempo per studiare il da farsi. Un’unione di questo tipo può funzionare solo se fatta bene, altrimenti per entrambi è meglio non fare niente. Credo comunque che avrebbe aiutato la Zarzuela, aiutando a inserire questo genere operistico nel repertorio».

Quali sarebbero stati i benefici invece per il Teatro Real?

«Certamente non da un punto di vista gestionale, perché già lavoriamo a pieno regime. Piuttosto, il Real avrebbe guadagnato la possibilità di poter utilizzare una sala più piccola e meno costosa da tenere aperta. Questa è una necessità che sentiamo sempre di più, perché ci permetterebbe di poter programmare con molta più flessibilità un tipo di repertorio (opera da camera, opere moderne, eccetera) che è invece economicamente complicato proporre in una grande sala come la nostra. In Spagna, l’unico teatro che può godere di una piccola sala alternativa è il Palau de les Arts di Valencia, ed è una risorsa molto utile».

L’opera di Valencia si avvale anche della collaborazione del Centro di perfezionamento vocale intitolato a Domingo. Quella di creare centri di insegnamento attorno alla struttura di un teatro d’opera è una strada che potrebbe risolvere certi problemi di produzione?

«A Valencia funziona molto bene, e anche noi ci serviamo per completare i cast di allievi del suo Centre de Perfeccionament. Però non ha senso immaginare che ogni teatro d’opera gestisca un suo centro di formazione per cantanti, perché si creerebbe una situazione di competizione inutile e una saturazione. Ne basta uno che faccia bene il suo lavoro. Poi qui a Madrid, tra la Scuola superiore di Canto, la Scuola superiore di musica Reina Sofía, e altre istituzioni, non sarebbe proprio il caso».

Foto Javier del Real / Teatro Real
Joan Matabosch (foto Javier del Real / Teatro Real)

Ad aprile gli International Opera Awards hanno premiato il vostro Billy Budd come migliore nuova produzione del 2017. Dell’ultima stagione che si sta chiudendo che cosa ricorda con più soddisfazione?

«Direi: Die Soldaten di Zimmermann, Gloriana di Britten, Street Scene di Kurt Weill e Dead Man Walking di Jake Heggie, tutte novità per il nostro paese. Ma anche quest’ultima Lucia di Lammermoor, non solo per la qualità vocale del cast, ma per il grande senso teatrale che David Alden ha saputo infonderle».

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