Cantante e polistrumentista belga, di chiare origini italiane (una nonna originaria della provincia di Udine, vicino Maniago, la città dei coltelli), Melanie De Biasio dal 2007 a oggi ha pubblicato quattro dischi.
Non ho ancora avuto modo di recuperare il primo, A Stomach Is Burning, uscito solo in patria, ma dovrò farlo presto perché gli altri tre sono tre perle: No Deal, che le ha regalato un inizio di fama, con un sensuale e ipnotico mix tra il downtempo nero dei Portishead e una Nina Simone virata ambient; Blackened Cities, un vero e proprio viaggio di venticinque minuti tra le strade delle città anonime che sporcano l’anima; e poi Lilies, dove il processo di rarefazione si intensifica, suonando come un vero e proprio trattato sull’arte di sparire: pochissimi elementi calibrati con un equilibrio e una grazia che hanno del miracoloso, e un senso di respiro e di profondità che trova pochi paragoni.
Abbiamo raggiunto Melanie De Biasio via telefono per capirne di più, alla vigilia del concerto di lunedì 30 aprile nell’ambito del Torino Jazz Festival e abbiamo avuto un’altra volta conferma del fatto che il miracolo della comunicazione è capirsi nonostante le spiegazioni. Le risposte di Melanie infatti sono perfettamente coerenti con la sua musica: elusive, lente, fatte di poche parole, di molte pause, sospese, dette con un filo di voce, da una distanza affascinante e imprendibile. Parlarci per una mezz’ora è stato in qualche modo come sentirla cantare: un’esperienza delicata, potente, sensuale e profonda. Frasi spesso laconiche che fanno riflettere su quanto possano essere superflue le domande, dettate dal nostro bisogno di spiegare e dalla nostra diffidenza nell’abbandonarsi semplicemente al mistero ed alla bellezza di questi strange fruits. Come diceva il poeta Giorgio Caproni: “Le parole. Già, dissolvono l’oggetto”.
C’è qualcosa di magico, di intimo che fluisce attraverso la tua musica, qualcosa difficilmente esprimibile a parole. Potresti provare a spiegarlo, o è un mistero anche per te?
«È difficile spiegare questo flusso di cui parli; cerco solamente di stare concentrata sui gesti e sui sentimenti autentici nel momento e provo a creare spazi, aria, tempi, con… [pausa lunga], non so cosa [ridendo appena]».
Parlando di spazio, le tue canzoni sono piene di spazio, di dinamica, di silenzio. Quali sono gli elementi fondamentali per te? È proprio vero che "Less is more"?»
«Less is more. Sì. Questa frase ha un’eco in me, ma anche rimuovere tutti gli strati esterni, cercare di tornare alla fonte delle emozioni, delle intenzioni, questo è il processo, credo».
L’urgenza di arrendersi al suono, a casa, in intimità. Tutte le canzoni sono movimenti d’amore e di resistenza, scrivi, nella seconda di copertina. Resistenza a che cosa, e perché questa urgenza di arrendersi?
«Non posso rispondere alla domanda, preferisco lasciare l’ascoltatore libero di vivere la propria esperienza».
In un’ipotetica mappa musicale io metterei la tua musica in un posto nascosto tra ambient, musica atmosferica a bassa battuta, minimalismo, jazz, canzone e colonna sonora di un film di Antonioni. Tu dove la metteresti invece?
«Non saprei, tutte le cose che hai detto tu, creare textures, aria, profondità, ossimori, velluto blu, non so. E tu?».
Direi canzoni lunari.
«Ah. Cool».
C’è un processo consueto che ti accompagna nella composizione dei pezzi?
«No, nessuna regola prestabilita. La musica arriva quando è matura».
Che tipo di ascoltatrice sei? Compulsiva, hai bisogno di silenzio, per cercare la tua voce? Cosa stai ascoltando in questo periodo?
«Molti suoni della natura. Chopin, Jimi Hendrix e molte altre cose».
E quali cantanti ti hanno ispirato?
«Nina Simone, Sade e Mark Hollis».
Sono molto molto felice di sentirti nominare Mark Hollis perché credo il suo unico disco solista (del 1998) sia un capolavoro, così come gli ultimi due dischi dei Talk Talk, e credo ci siano molte cose in comune tra il suo lavoro e il tuo.
«Anche io sono molto felice che tu noti questa somiglianza, sono una grande fan anche io di Hollis. Mark Hollis, sì!».
Mi parli di Blackened Cities (EP di qualche tempo fa con un solo pezzo, semplicemente mozzafiato) e di "Gold Junkies", in Lilies? Queste città nere sono più spazi psicologici che geografici, non è così? Noto che i due pezzi sono legati.
«"Blackened Cities" è un lungo pezzo registrato in una volta sola, una composizione molto spontanea e "Gold Junkies" non ne è altro che il demo, per cui credevo fosse interessante farne sentire la versione embrionale, per così dire».
Mi parli della scena belga? Su No Deal, tra i ringraziamenti, citi Marc Moulin dei Placebo (non quelli di Brian Molko, ovviamente, ma il grande gruppo jazz-rock degli anni Settanta). A me poi vengono in mente dEUS, Evil Superstars, Arno, Jacques Brel, Soulwax. Qualche nome?
«La scena belga è molto prolifica, in particolare la parte fiamminga, ma non voglio darti dei nomi».
Vivi a Charleroi ma Lilies è stato registrato a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles famoso i fatti di terrorismo che ben sappiamo. Vuoi dirci qualcosa su questo quartiere?
«Non so cosa dire».
Se potessi scegliere un film per cui fare la colonna sonora, quale sarebbe?
«Dead Man di Jim Jarmusch. [Inizialmente dice Dead Man Walking, poi le faccio notare che si è confusa e che il film di Jarmusch è Dead Man. Tra il mio spaghetti english e la nuvola in cui a volte pare immersa si creano piccoli spazi di incertezza, che rendono la conversazione simile ad un cercarsi a tentoni nel buio].
Sarà il tuo primo concerto in Italia, quello di lunedì?
«No, ho già suonato a Roma e a Milano di spalla ad Agnès Obel, ma sono molto contenta di venire in Italia, perché è la casa di mia nonna ed è un posto davvero molto importante per me».