Esteban Buch
Trauermarsch. L’Orchestre de Paris dans l’Argentine de la dictature
Paris, Éditions du Seuil, 2016.
«Diventerai un adorniano triste». Con queste parole Esteban Buch viene messo in guardia da un suo caro amico circa i rischi cui sarebbe andato incontro lavorando a un libro sui rapporti tra musica e dittatura. Buch è uno storico con doppio passaporto, francese e argentino, incredibilmente poco noto nel nostro paese, nonostante sia stato il primo a denunciare, nel libro El pintor de la Suiza Argentina (1991), la partecipazione di Erich Priebke al massacro delle Fosse Ardeatine.
Directeur d'études all’EHESS di Parigi, Buch ha eluso alla perfezione i pericoli che minacciavano la sua impresa. Trauermarsch è un poderoso esempio di come un saggio di storia della musica – colto, iperdocumentato e dalle solide basi teoriche – possa farsi leggere come un lungo e appassionante romanzo, pur annoverando tra i propri protagonisti personaggi realmente esistiti e spesso ancora in vita. È l’autore stesso a dichiarare che il punto di forza di un libro scritto «con gioia» (altro che adorniano triste!) sta proprio nel suo carattere ibrido, nell’approccio volutamente impuro alla storiografia: «Contro gli storici che vedono la letteratura come una minaccia alla storia intesa come scienza, ma anche contro quegli scrittori che, in nome della letteratura, scrivono la storia ma non fanno ricorso ai documenti, questo libro vorrebbe far derivare il potere delle storie raccontate dallo spessore della sua cornice documentaria».
Una settimana, due ore, trentasei anni. Sono i titoli dei tre capitoli del libro e le tre unità temporali che scandiscono la grande poliritmia storica che sostiene la narrazione dalla prima all’ultima pagina. Un lungo racconto in tempi dispari – si direbbe in gergo musicale – se è vero che per Buch, ideale erede della microstoria di Bloch e di Febvre, una settimana, due ore o trentasei anni rappresentano porzioni di tempo dalle quali è possibile estrarre la stessa quantità di dati rilevanti. Più tempo, per Buch, non significa necessariamente più materiale su cui riflettere, eppure Buch non sacrifica il rigore dello storico vecchia maniera all’ampiezza dello sguardo: il fatto è che macrofagia delle fonti non fa rima, qui, con inconsistenza teorica – un tratto spesso rilevabile nella letteratura anglosassone recente su questi temi.
La settimana che va dall’11 luglio al 18 luglio del 1980 è quella che vede esibirsi l’Orchestre de Paris in un’Argentina nel pieno di una dittatura ormai nel mirino dell’opinione pubblica internazionale. Dal 1975 a dirigere l’Orchestre, creatura fortemente voluta dal ministro André Malraux, c’è un direttore a nato a Buenos Aires ma con doppio passaporto, argentino e israeliano: un cittadino del mondo reduce da cinque trionfali tournée in URSS, Israele, Stati Uniti, Grecia e Giappone. È Daniel Barenboim, che ad appena 38 anni, forte di una «symbiose» con l’orchestra «che lo ha condotto a uno smisurato successo», incarna in maniera esemplare la figura del direttore d’orchestra le cui gesta «getta[no] luce sulla natura del potere», per citare il Canetti di Massa e Potere. E in effetti quella dell’Orchestre de Paris è una vera e propria spedizione diplomatica, dati i rapporti tesi tra Francia e Argentina che Buch ricostruisce con dovizia di particolari nel primo capitolo.
Il concerto finale si concluderà con una standing ovation al culmine della Quinta di Mahler (eseguita in prima assoluta in Argentina), nonostante da più parti si fosse levato, da parte dei giornali argentini, l’invito a «non applaudire». I rapporti si confermarono tesi anche all’indomani del volo che riportò l’Orchestre in Francia. I commentatori reagirono in modo scomposto: «La presenza di questi musicisti francesi in Argentina rappresenterà probabilmente un passo positivo per l’Europa, affinché scopra lentamente la verità su un paese come il nostro, vittima di una perdurante campagna di diffamazione internazionale», si leggeva per esempio su un articolo de La Nación del 18 luglio.
Buch sa bene che, al di là del frastuono della stampa (che pure riesce a gestire con invidiabile maestria: l’operazione di contestualizzazione degli articoli di giornale in un’ottica più ampia è magistrale) il problema è più generale: l’incidente diplomatico non disvela tanto una logica da guerra fredda – Francia versus Argentina, democrazia versus dittatura, arte versus politica – ma le fratture che contraddistinguono l’agire degli attori collettivi coinvolti.
Gli attori collettivi sono le forze oscure che muovono la storia. È per questo che Buch fa iniziare il secondo capitolo con le macabre parole che l’AIDA, l’Association internationale de défense des artistes victimes de la répression dans le monde, ricorda, a mo’ di avvertimento, ai membri dell’Orchestre prima di partire: «Ne pas jouer de la musique pour couvrir le silence de la mort». Il capitolo sembra essere un lungo e ragionato commento alla celebre frase dell’Adorno di Critica della cultura e società: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».
È un trattato autoconsistente che si inserisce all’interno della sempre più ricca letteratura sul rapporto tra musica e violenza, musica e potere. Il caso-studio è proprio la Quinta di Mahler, calata sì nel contesto della sua prima esecuzione in terra di Argentina, ma al contempo elevata a caso-studio – via Adorno – di opere in cui, per usare le parole di Mauricio Kagel, «il musicista diventa attore, l’ascoltatore spettatore». La musica come teatro strumentale, dunque, sul cui palco è possibile «dire no al nazismo, all’antisemitismo, alla dittatura, alla guerra, alla violenza.
Proprio Mauricio Kagel, il massimo compositore argentino del XX secolo, è il protagonista dell’ultimo capitolo. Trentasei sono gli anni passati da quel 1980 che vide esibirsi l’Orchestre de Paris in Argentina. Esteban Buch ha potuto condurre – grazie alla possibilità di consultare una mole sterminata di pubblicazioni digitalizzate – una ricerca che solo dieci anni fa sarebbe stata impensabile. Quello che è rimasto immutato, però, è lo scopo ultimo della ricerca dello storico impegnato. È ora di tirare le somme. Grazie alla ricostruzione dell’opera di Kagel (se ne sente la mancanza qui in Italia, dove sono stati pubblicati esclusivamente i suoi bellissimi Scritti sulla musica da Quodlibet, nel lontano 2000), Buch porta a compimento quell’ermeneutica dell’arte intesa come resistenza, cifra ultima del suo raccontare se è vero che «une histoire vraie qui mérite d’être racontée se nourrit autant de musique que de silence».