Antonio Florio, trent'anni di passione musicale partenopea

Intervista ad Antonio Florio: il passato e il futuro della Cappella Neapolitana, punto di riferimento per la riscoperta della musica del Seicento a Napoli

Intervista ad Antonio Florio, Cappella Neapolitana
Foto di Javier Hernandez
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Nel 1987 Antonio Florio ha creato l’ensemble Cappella della Pietà dei Turchini – oggi Cappella Neapolitana – con il quale ha rivelato i tesori del patrimonio musicale partenopeo fiorito tra il XVII e il XVIII secolo.

Nel corso di trenta anni di intensa attività il gruppo è divenuto uno dei principali punti di riferimento per la conoscenza e la divulgazione della scuola che rese Napoli una delle principali capitali europee dell’arte musicale, grazie a rappresentazioni e concerti svolti in tutto il mondo e alle numerose incisioni discografiche che hanno ottenuto premi e riconoscimenti internazionali.

Verso la fine del 2017 con l’esecuzione di un oratorio inedito di Donato Ricchezza, Florio ha dimostrato che – soprattutto per quanto riguarda il Seicento – c’è ancora molta musica da scoprire, nonostante le numerose prime esecuzioni in epoca moderna già realizzate con il suo ensemble, che nel frattempo ha cambiato nome.

Il 2018 si annuncia pieno di appuntamenti importanti che lasciano presagire altre scoperte. Abbiamo incontrato Antonio Florio per parlare di quanto fatto fino a ora, frutto di anni di appassionato studio e di molta prassi musicale storicamente informata, e per scoprire le possibili ricerche future.

Come è iniziato il lavoro di gruppo da cui è nata quella che oggi si chiama Cappella Neapolitana?

«Partendo dall’esperienza fatta come insegnante di musica da camera, perché non esisteva ancora la specializzazione nell’area della musica antica, e con alcuni cantanti che avevano desiderio di approfondire la prassi vocale barocca. Il gruppo è nato come Cappella della Pietà dei Turchini, prendendo il nome dal più importante dei quattro conservatori storici napoletani, e abbiamo iniziato allestendo La colomba ferita di Francesco Provenzale. A quel tempo eravamo in pochi a dedicarci a questo repertorio e fra noi c’era anche Pino De Vittorio che voleva conoscere il mondo della musica barocca, e io attraverso di lui quello della musica tradizionale. Prima di fondare il gruppo avevo lavorato con Roberto De Simone suonando il violoncello nelle ultime quaranta recite de La gatta cenerentola, ma l’esperienza più importante è stata la collaborazione con Rinaldo Alessandrini, per l’interpretazione delle cantate in lingua napoletana realizzata con De Vittorio. Si trattava di musiche che allora erano quasi sconosciute».

«La prima edizione de La colomba ferita la presentammo nella vera Chiesa della Pietà dei Turchini in via Medina. Ogni sera la allestivamo dopo l’ultima messa, con scenografie e costumi fatti in casa, per poi smontare tutto di nuovo alla fine e lasciare in ordine per le messe del giorno seguente. Tutto è cominciato da lì, e nei primi dieci anni il nostro lavoro è cresciuto grazie anche ad alcuni musicologi francesi, e grazie alla opportunità di poter incidere dei dischi a Parigi. I primi concerti in Francia si sono svolti nella Maison des Castrats Italiens, nel Centre de Musique Baroque de Versailles, e poi all’Opera de Nancy, e con l’etichetta Opus 111 abbiamo pubblicato diversi dischi e dvd nella collezione Trésors de Naples. Il primo titolo era dedicato a Caresana e ha ottenuto molti premi e riconoscimenti. Negli ultimi anni abbiamo registrato dischi per la Glossa, che ha anche ristampato alcuni dei titoli realizzati nella fase iniziale della nostra carriera per la Symphonia».

Ogni concerto e ogni disco ha alle spalle un lavoro di ricerca.

«Ho cominciato a fare ricerche e studi musicologici e poi sono stato affiancato da Dinko Fabris. Avendo fatto delle scelte non facili ed eseguivamo la musica che studiavamo riscoprendo opere di cui non si conosceva l’esistenza. Quando abbiamo iniziato non si parlava di Caresana, Provenzale, e anche Vinci era praticamente sconosciuto. Li abbiamo scoperti attraverso i loro capolavori, e oggi Vinci, che potrebbe essere considerato l’Händel italiano, viene eseguito in tutto il mondo. Devo però dire che la città di Napoli non si è appropriata di questo repertorio seicentesco, o se ne è appropriata fino a un certo punto. La sua memoria storica ha propaggini recenti, Eduardo per il teatro e la canzone napoletana, ma non di tutto quello che c’è stato prima. Napoli era una meta molto importante del Grand Tour ed è stata una delle più importanti capitali musicali nel Seicento e nel Settecento».

«Purtroppo dolorosamente intorno al 2009 a causa di questioni legali abbiamo perso l’uso del nome che ci appartiene storicamente. La nostra attività è proseguita con il nuovo nome di Cappella Neapolitana, ma a volte è difficile far capire che si tratta della stessa struttura e delle stesse persone».

«Per lavorare su questo repertorio si deve avere una conoscenza approfondita della storia, della pittura e della architettura, perché anche i numerosi fattori sociali incidono sulla interpretazione di questa musica. Quando l’opera veneziana arrivava a Napoli l’organico cambiava, perché i teatri partenopei erano più grandi di quelli di Venezia. In spazi molto grandi l’organico delle parti reali di un concerto veniva raddoppiato o triplicato. È importante conoscere anche la committenza, e l’iconografia ci ha aiutato a ricostruire alcuni strumenti musicali. Credo che tutti questi aspetti siano meno rilevanti per i musicisti che si occupano dell’Ottocento».

Dunque non avete mai smesso di fare ricerca…

«Questa catena ininterrotta di maestri e allievi ci ha permesso di scoprire gli altri rami di questo albero. Napoli aveva bisogno di musica perché oltre alle cinquecento chiese c’erano conventi, accademie e teatri nobiliari. I conservatori partenopei erano un vero e proprio modello di produzione ed esportazione poiché numerosi strumentisti trovavano poi una sistemazione nei principali centri d’Europa. Molti cantanti della Cappella Sistina e della Cappella Giulia venivano da Napoli, che era molto importante dal punto di vista della formazione e della didattica».

A un certo punto avete fondato un centro di produzione e ricerca.

«È stata un’esperienza quasi unica in Italia. Fabris ha sempre sottolineato la fortuna di avere un gruppo che gli faceva ascoltare le musiche che studiava. Personalmente ho investito molte energie nel Centro di musica antica della Pietà dei Turchini, ed è stato molto importante avere una sede nella quale lavorare, ma noi musicisti non siamo amministratori… e purtroppo dolorosamente intorno al 2009 siamo stati costretti ad abbandonarlo e a causa di questioni legali abbiamo perso l’uso del nome che ci appartiene storicamente. La nostra attività è proseguita con il nuovo nome di Cappella Neapolitana, ma a volte è difficile far capire che si tratta della stessa struttura e delle stesse persone. Purtroppo nonostante tutto quello che abbiamo fatto per il patrimonio musicale di questa città, non abbiamo ricevuto da parte delle istituzioni un sostegno adeguato alle nostre esigenze. L’associazione Alessandro Scarlatti è una eccezione, perché ci ha ospitati nelle sue stagioni, e abbiamo creato una struttura dedicata ai giovani in collaborazione con il Dipartimento di musica antica del Conservatorio di Napoli e di altre città del sud Italia: lo Scarlatti Lab diretto da me e da Dinko, che è una sorta di fucina di formazione e creazione».

Come funziona?

«Ha la funzione di coinvolgere dei giovani, sotto la guida dei musicisti del nostro ensemble, e avviarli alla professione con una retribuzione dignitosa, in modo da farli crescere sia musicalmente che dal punto di vista del concertismo. È un lavoro che mi ha impegnato moltissimo».

Quali produzioni in questi trenta anni rappresentano meglio di altre la storia dell’ensemble?

«Certamente La colomba ferita di Provenzale, che è la prima scoperta e che ha avuto molti allestimenti. Dopo Napoli l’abbiamo rappresentata a Palermo negli anni Novanta, per il festival curato dall'Associazione Antonio Il Verso in occasione della festa della Santa protettrice della città, perché l’opera racconta la storia di Santa Rosalia. L’ultimo allestimento è quello realizzato al San Carlo con la regia di Davide Livermore, la sua prima regia, che poi è stato rappresentato in Spagna e in Francia, e in forma di concerto in diverse città europee».

«L’altra produzione musicale a cui sono molto legato è Le zite n‘galera di Vinci, un’opera molto divertente che abbiamo presentato in tutta Europa in forma di mise en espace. Si tratta di uno dei grandi capolavori del teatro musicale napoletano ed è su libretto di Sadumene. Il testo di eccellenza lo rende il capolavoro per antonomasia dell’opera buffa napoletana, che con il suo linguaggio poetico e librettistico è quasi neorealista. È un connubio molto particolare perché le storie sono fantastiche ma i personaggi parlano come si parlava per le strade, coi i motti, le iperboli e con un ricco e colorito bagaglio lessicale. È molto diversa dall’opera seria, e a Napoli si erano create due distinte forme di compagnie di teatro musicale. Quelle dell’opera comica erano fisse, perché ognuno ricopriva un ruolo: il nobile, la furbetta, il buffo en travesti, e così via, secondo una tradizione che prosegue fino alle commedie di Viviani. Nella cosiddetta commedia per musica esisteva il personaggio della vecchia che all’epoca era interpretato dal celebre cantante e attore Simone De Falco, di cui oggi Pino De Vittorio è una sorta di reincarnazione. Il mio sogno sarebbe quello di rimettere in scena queste due opere, con regie e in situazioni diverse, che penso rappresentino il meglio della nostra carriera».

Su cosa state lavorando?

«In questa fase sono molto attratto dall’oratorio prima di Scarlatti, che è comparabile a quanto accadeva a Roma con Carissimi e Pasquini. Si tratta di una produzione musicale molto interessante che ha avuto un grande sviluppo grazie al fatto che San Filippo Neri e i padri filippini fondarono il convento dei Gerolamini, presso il quale hanno operato musicisti di grande talento. L’arrivo di Scarlatti segnò la fine della sperimentazione della scuola napoletana. Di fronte al convento c’è la Real cappella del Tesoro di san Gennaro, dove dalla metà del Seicento si utilizzavano molte voci e molti strumenti, con un assetto che si potrebbe definire policorale e polistrumentale, come ad esempio nelle sonate di Caresana a doppio coro. La biblioteca con il fondo musicale del Tesoro di san Gennaro è poi confluita nel convento dei Gerolamini, ma non conosciamo bene i confini esatti tra l’uno e l’altro in termini di attività musicale. Giovanni Caresana e Donato Ricchezza erano preti e lavoravano sia ai Gerolamini che al di fuori, e Caresana è stato maestro di cappella del Tesoro dopo Provenzale, ma non sappiamo esattamente per quale delle due siano state scritte molte delle sue musiche, tranne evidentemente quelle dedicate a San Gennaro. Stiamo parlando di organici complessi che erano a loro disposizione e di composizioni a sei o sette parti reali, sia vocali che strumentali, e non di soli due violini solisti e un basso continuo come altrove. Tutto questo ha generato uno stile molto particolare e molto complesso dal punto di vista contrappuntistico. Con l’arrivo di Alessandro Scarlatti a Napoli l’orchestra si è formalizzata, ma non tutti hanno adottato il nuovo stile, e sia Caresana che Ricchezza hanno mantenuto lo stile precedente, mentre gli autori nati negli anni Settanta del Seicento come ad esempio Sarro, Mancini, Fago, Carapella, sono stati influenzati dalla scuola scarlattiana».

Tra i tesori musicali del Seicento napoletano c’è anche quello di Donato Ricchezza e dopo tanti anni di attività l’oratorio scoperto ed eseguito con Cappella Neapolitana sembra l’inizio di una nuova fase.

«Sto riflettendo, in questo periodo, sul come colmare la lacuna dell’oratorio del Seicento, che non riguarda solo la storia della musica sacra. Non sappiamo se venivano eseguiti solo in forma di concerto o se ci fosse anche qualche elemento di rappresentazione scenica. Nella seconda metà del secolo ci sono oratori che hanno una struttura molto teatrale: per esempio in Ricchezza viene esaltata la contrapposizione tra i buoni e i cattivi, e la struttura formale dei recitativi fa pensare che ci potesse essere una azione drammatica. Sono incuriosito e interessato nei confronti di questo tipo di oratori, ma d’altra parte mi interessa anche riproporre cose fatte in passato e poi non più ripetute, come per esempio l’opera pastorale La Filli di Giovanni Cesare Netti. L’abbiamo potuta eseguire nel settembre scorso durante il festival Purtimiro di Lugo, e questo mi ha consentito di farne una rilettura. Vorrei che questi autori potessero entrare in repertorio e mi piacerebbe che le istituzioni concertistiche fossero più attente nei confronti della musica del Seicento, che è un patrimonio enorme, senza dovere aspettare le ricorrenze dei centenari, perché abbiamo un patrimonio straordinario che dovrebbe essere valorizzato. Si tratta di musiche che sono altrettanto fruibili per il pubblico al pari di quelle del Settecento. I festival di musica antica dovrebbero non solo essere sostenuti ma anche moltiplicarsi.

Ne avete creato uno da poco.

«Sì, negli ultimi due anni. Si tratta di un piccolo festival intitolato Sicut Sagittae, organizzato in collaborazione con la Domus Ars e Il canto di Virgilio, nella Chiesa di San Francesco delle Monache, vicino a piazza del Gesù, che per certi versi ricorda la struttura che avevamo una volta».

L’inizio del 2018 è pieno di impegni importanti.

«Abbiamo da poco fatto un concerto in Spagna intitolato Festa Napoletana, dedicato alle musiche e alle arie di opere buffe che venivano rappresentante nel momento più importante della stagione teatrale ossia il periodo di Carnevale. Ora sto andando a Torino per preparare L’Orfeo di Monteverdi che debutterà il 13 marzo. Ho già diretto L’Incoronazione di Poppea, ma è la prima volta che lavoro a un’opera così antica. Lavorerò molto sull’espressione, sul colore e sul continuo e questo mi attira moltissimo. Monteverdi spiega esattamente quello che vuole, sia per quanto riguarda gli strumenti che per la realizzazione del basso continuo, e ho scelto l’edizione curata da Alessandrini che sotto questo punto di vista è quella più esaustiva. Mi fa piacere lavorare con un teatro ben organizzato e mi interessa che la musica sostenga soprattutto la teatralità e la bellezza del testo. Si tratta di un’opera di fronte alla quale bisogna porsi con modestia perché c’è tutto quello che seguirà, e tutto quello che viene detto è già così perfetto che non si potrebbe dire meglio. Poi subito dopo eseguiremo uno dei capolavori del nostro repertorio, La Passione secondo Giovanni di Gaetano Veneziano, che presenteremo al Concertgebouw di Amsterdam e poi in Belgio a Gent, affiancato dallo Stabat Mater di Alessandro Scarlatti, con la partecipazione del Coro Ghislieri e le voci soliste di Raffaele Pe, Luca Cervoni e Marco Bussi e di Roberta Invernizzi e Sara Mingardo».

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