Puccini secondo Valčuha
Napoli: Fanciulla del West ha inaugurato la stagione
La Fanciulla del West ha inaugurato la nuova stagione lirica 2017/2018 del Teatro di San Carlo di Napoli, e l'abbiamo seguita all'ultima replica, serale di sabato, con il teatro pieno di giovani e appassionati. Questa opera di Puccini potrebbe diventare un titolo da repertorio per il San Carlo, al fianco o in sostituzione di Traviata e Bohème, per come è stata pensata, lavorata e vissuta in teatro. Alla "Polka" subito conquistava la compattezza del racconto con la miriade di personaggi, l'effervescente naturalezza teatrale, il piacere del whisky, botte, balli e pistole. E altrettanto Puccini ne usciva sperimentato, pieno di eredità da Manon fino a Wagner, intrecciato in un tessuto sinfonico provocatore, almeno nel mondo dell'opera.
Valčuha è originale da subito, senza retorica e trionfalismi, ma il podio si riconosce da questi dettagli. I primi forse ad esserne conquistati sono gli strumentisti in buca, che suonavano come da tempo non si sentiva. Quasi sinfonici, per spessore ed affondo. Con grande gesto, che dipana impasti soffici e singoli fraseggi morbidissimi, Valčuha racconta la Fanciulla a partire dall'eredità Ottocentesca, e la immerge in una modernità energica, dialogante, scattante, mai esile nei contenuti, veloce ma pensata.
Di questa Fanciulla si è parlato tanto, soprattutto per la sapiente partitura di Puccini, ma anche per le connessioni con il cinema, finanche allo scarno libretto. Peraltro lo spettacolo è nuovo nell'allestimento che vede la collaborazione di Abao-Olbe. Poco violento, anzi sentimentale tra la nostalgia della terra madre nel primo atto e l'amore/passione di Minnie e Dick Johnson al secondo atto. In questo clima, da western senza trionfalismi battaglieri, si stagliava la qualità del lavoro del regista, su di una valanga di comprimari ognuno con una propria storia da raccontare come il Nick di Bruno Lazzaretti, il cantastorie, il cameriere ecc. E questa è una novità.
Le scelte di Hugo De Ana sono apparse chiare e lineari: vede Jack ossessivo, Minnie forte e mascolina. La cornice della capanna di Minnie, nella scena fredda e tesa del secondo atto, richiama certe geometrie cinematografiche, i due amanti, la paura di essere scoperti, la tempesta di neve che incalza, tutto a dir poco avvincente. Perché certi ambienti che al cinema sono consueti, in teatro, dal vivo, creano atmosfere uniche ed emozionanti. Sia la Minnie di Emily Magee - bravissima scenicamente, un po’ tremula vocalmente, una fanciulla con poca voce ma mai gridata - sia il Johnson di Roberto Aronica - limpido, eroico, ma sempre un po’ mite - risultavano mete inarrivabili per il Jack Rance di Claudio Sgura, possente per tutta l'opera, sopraffatto da tutti, dai compagni ma ancor di più da lei in una partita a carte che sa di puro western, dove Valčuha al suo finale libera un crescendo traboccante di suono.
Ma indimenticabile resta il gesto ultimo del coro dei minatori, ben preparato da Marco Faelli e tradizionalmente vestito dallo stesso De Ana: una massa a braccia e pistole levate verso il redentore Johnson, rassegnato, in una scena che sa di esistenzialismo, inquadrata a luci sempre scure di Vinicio Cheli che chiude un immaginario lontano West su di un "finto" happy ending.
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