Applausi e qualche contestazione per La Damnation de Faust
La leggenda drammatica di Berlioz ha inaugurato la stagione dell’Opera con la direzione di Gatti e la regia di Michieletto
La damnation de Faust non è un’opera: Berlioz la definì “légende dramatique” e la fece sempre eseguire in concerto, perché secondo le concezioni teatrali dell’epoca era irrappresentabile, a causa dei continui strappi nel tessuto logico e temporale della vicenda. Solamente alcuni decenni dopo la sua morte si cominciò a rappresentarla nei teatri, ma il suo momento è giunto solo ora, quando quei “difetti” hanno cominciato ad apparire dei pregi alle nuove leve di registi, che vedono aprirsi davanti a loro praterie sconfinate di libertà, perché sono chiamati a creare ex novo quella drammaturgia che questa non-opera non possiede. È la situazione ideale per Damiano Michieletto, che ha ideato uno dei suoi spettacoli più belli, che ogni volta – alla generale, alla prima e, appena tornato a casa, in differita televisiva - mi ha convinto di più. È uno spettacolo molto audace ed è inevitabile che non sia piaciuto a tutti, infatti quando l’équipe registica è uscita alla ribalta non sono mancate le contestazioni, sopraffatte però dagli applausi.
Lo spettacolo di Michieletto è per alcuni aspetti molto lineare: la scena (Paolo Fantin) è un parallelepipedo grigio chiaro, in cui prendono posto di volta in volta pochissimi oggetti di scena; i costumi (Carla Teti) sono moderni e semplicissimi, come si possono trovare in un grande magazzino. Ma in questa semplice cornice la regia è eccessiva e sovrabbondante, con molte idee che talvolta si fatica a decifrare, perché non sono univoche e ognuno può interpretarle a modo suo, in linea con quel che ha scritto Berlioz, che è sempre eccessivo e sovrabbondante, talvolta oscuro e incomprensibile. Rifarsi a Goethe come guida non serve a molto, perché Berlioz ha tagliato, aggiunto e cambiato senza troppe remore uno dei capolavori della letteratura mondiale. Quindi non è a Michieletto che si devono rivolgere le eventuali accuse di sacrilegio che si sono sentite nel foyer.
Il Faust di Berlioz non è un un vecchio sapiente, ma un giovane artista romantico, che, disgustato dalla volgarità e dal materialismo della società in cui vive, si sente inadatto alla vita ed è preda del ennui – Berlioz lo dice chiaramente – cioè di quello spleen da cui un decennio dopo sbocceranno le Fleurs du mal di Baudelaire. Michieletto spiega l’origine di questa sua condizione psichica ricorrendo non agli ideali romantici ma ad una delle mostruosità partorite dalla società attuale: la Marcia ungherese diventa la colonna sonora del bullismo di cui Faust è vittima a scuola e da cui resta segnato per sempre, fino a pensare al suicidio. In un teatro d’opera non si è abituati a tanta brutalità e la reazione di alcuni spettatori è di rifiuto, eppure questa scena ha non solo un forte impatto teatrale ma spiega anche perché Faust provi repulsione all’ascolto di quella marcia allegra, chiassosa, sfrenata, violenta, che sembrerebbe inserita da Berlioz in modo del tutto incongruo. La scena successiva, in cui Faust si commuove ai canti religiosi della Pasqua, che gli ricordano la sua infanzia, è un sogno ad occhi aperti: Faust vede se stesso bambino a tavola con la madre in un giorno di festa, intorno a una torta con le candeline, ma il sogno svanisce e Faust si ritrova ancora solo in un mondo ostile. Si capisce che diventi facile preda dei raggiri di Mefistofele, che in Berlioz stesso ha ben poco di mefistofelico e che da Michieletto è rappresentato come un imbroglione, un venditore di illusioni, vestito in stile cafonal chic, con completo bianco e stivaletti di pitone, insomma un uomo di successo, secondo i criteri vigenti oggi. Se favorisce – o finge di favorire – l’amore tra Faust e Margherita, lo fa solo per cercare d’intrufolarsi e ricavarne qualche soddisfazione sessuale, prima con l’uno, poi con l’altra. Quando alla fine si presenta in veste di diavolo, si tratta chiaramente di una mascherata, infatti una telecamera ce lo mostra quando viene truccato e vestito dietro le quinte, facendo l’occhiolino al pubblico in segno di complicità: dalla sala trucco esce indossando una maschera carnevalesca da serpente, ridicola, non spaventosa.
Mi rendo conto che raccontare tute le idee di Michieletto è impossibile. Tentare di condensarlo in poche parole è altrettanto impossibile e – peggio - significherebbe tradirlo, perché questo spettacolo vive della proliferazione di idee e di suggestioni, spesso contraddittorie, talvolta molto efficaci, talvolta meno: è significativo che, parlandone all’uscita del teatro, le cose che uno ha più apprezzato siano proprio quelle che all’altro non sono piaciute. Ma anche questo è perfettamente adeguato a Berlioz, che alterna molte pagine straordinarie ad altre piuttosto deboli: basti confrontare il doppio finale, quello geniale in inferno e quello banale in cielo.
Il regista si è ritagliato un ruolo da protagonista, ma il direttore d’orchestra non si è fatto mettere in ombra. Al contrario di Michieletto, Daniele Gatti è stato sempre sorvegliatissimo, evitando eccessi e squilibri, clangori ed effetti, sebbene Berlioz gliene offrisse spesso l’occasione. Una direzione delicata – tra i vertici le due poetiche romanze di Margherita, “Autrefois un roi de Thulé” e “D’amour l’ardente flamme”, sullo stesso testo di Margherita all’arcolaio di Schubert – ma anche capace d’infiammarsi, come nella terribile cavalcata demoniaca e nel coro infernale. Ottima la risposta dell’orchestra e del coro preparato da Roberto Gabbiani.
Le parti dei tre protagonisti presentano grandi difficoltà. Quella di Faust è lunghissima e faticosissima, basata soprattutto sull’ingrata zona di passaggio, con frequenti micidiali puntate all’acuto: il tenore Pavel Cernoch all’inizio è apparso un po’ duro – la voce era ancora fredda – ma poi ha offerto una prova irreprensibile, cui mancava soltanto un maggiore immedesimazione nel personaggio, ma questo era in linea con l’ennui, la stanchezza esistenziale e l’indifferenza di questo Faust. La parte di Mefistofele è in bilico tra basso e baritono, ma non è stato un problema per Alex Esposito, che ha cantato benissimo e recitato con tutto l’istrionismo che il personaggio e la regia richiedevano. Similmente anche Margherita è spesso in bilico tra mezzosoprano e soprano, ma questo non ha creato particolari difficoltà a Veronica Simeoni, che ha dato un’ulteriore dimostrazione della sua classe di artista, sempre concentrata sulla musica, attenta non tanto alle occasioni più facili da cogliere quanto alle sfumature più delicate e segrete. Molto bene Goran Juric nella breve parte di Brander. Tanti applausi, qualche contestazione alla regia.
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