Aci, Galatea, Polifemo e i loro doppi
La serenata di Haendel al Carignano di Torino
Recensione
classica
La storia di Aci e Galatea dalle “Metamorfosi” di Ovidio a Haendel piacque due volte, nella vita: la prima fu a Napoli nel 1708. Aveva 23 anni, e su libretto dell’abate arcadico Nicola Giuvo compose questa “serenata a tre” per le nozze della Principessa d’Acaja. Al Regio di Torino hanno chiamato la Cappella della Pietà de’ Turchini di Antonio Florio, da Napoli, e una specialista del canto barocco come il mezzosoprano Sara Mingardo, che è la ninfa Galatea. La sala settecentesca del Teatro Stabile è stata appena restaurata, e ha ricavato una piccola buca dove stanno quasi tutti i musicisti del piccolo ensemble, clavicembali esclusi, che stanno appoggiati in platea, microfonati per farsi sentire dai cantanti. L’acustica è discreta, ma molto secca, e per tutta la prima parte oboe, fagotto, violini, viole ondeggiano cercando l’intonazione con le voci inadeguate di Ruth Rosique e Antonio Abate. Davide Livermore, che è un cantante lirico diventato regista, ovviamente non sbaglia regia: sceglie di doppiare i tre personaggi, e li agita in una scena dove vari schermi proiettano i video ipernaturalistici di Marco Fantozzi, che nelle splendide statiche arie di belcanto rappresentano gli affetti e le metafore ricorrenti: aquila, farfalla, serpe, aria, acque, sangue. La Cappella di Florio ha per suo stile un suono piccolino, che funziona spesso magistralmente quando l’affiatamento con la scena è perfetto. Qui arie di una difficoltà strabiliante, scritte per castrati dalle doti mirabolanti vengono torturate spesso. In ogni caso, il dado è tratto, Haendel è stato eseguito nell’anno di Haendel: un giorno lo sentiremo come è opportuno cantarlo.
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