Questo Barbiere di Siviglia è dedicato alla memoria di Giuseppe Patané, che scomparve prematuramente subito dopo essere stato nominato direttore principale dell'Opera. Fa piacere che dopo anni il teatro si sia ricordato di lui ma perché si è scelto Rossini e non Verdi o Puccini o un verista, che erano i cavalli di battaglia di questo direttore pieno di talento e di doti naturali, che però si accontentava di una rilettura della tradizione alla luce del proprio istinto? Il motivo è che Patané incise nel 1988 una riuscitissima edizione del Barbiere di Siviglia, ma totalmente anacronistica, come se non ci fossero ancora state la belcanto renaissance, la filologia testuale e il Rossini Opera Festival. Quindi la sua commemorazione è stata usata come felice pretesto per riproporre un Rossini all'antica. Gianluigi Gelmetti, che al festival pesarese è di casa, si è infatti voluto togliere lo sfizio d'ignorare almeno per una volta le regole talvolta asfissianti della filologia rossiniana alla pesarese.
Ma Gelmetti è troppo smaliziato per limitarsi a tornare puramente e semplicemente indietro e allora ripropone questo Barbiere di Siviglia come la rivisitazione a sua volta filologica d'un mondo operistico scomparso. Dunque la figura relativamente recente dell'invadente regista è sostituita dal vecchio capocomico (è Gelmetti stesso) che si limita a suggerire le coordinate fondamentali della messa in scena e per il resto lascia spazio all'estro e alle doti istrioniche dei singoli protagonisti, che però non ci sono più abituati e quindi non prendono molte iniziative, con l'eccezione di Bruno Praticò, che in questa situazione ci sguazza come un pesce nell'acqua. Inoltre si ricostruisce con certosino lavoro filologico l'usanza degli interventi a braccio, inserendo nei recitativi battutine più o meno divertenti, che dovrebbero sembrare spontanee e improvvisate. Una volta imboccata questa strada è difficile fermarsi. Così Gelmetti e i suoi inventano una vera e propria commediola, che è poi la vecchia storia dell'impresario maneggione che cerca di mandare avanti in qualche modo lo spettacolo, dribblando proteste dei cantanti e insufficienza di mezzi. Il testo non è un gran che, ma ha il vantaggio d'essere nato direttamente sulle tavole del palcoscenico dalla collaborazione a quattro, otto, sedici mani di tutti i protagonisti e fila via con naturalezza e ritmo teatrale. Anche perché è in gran parte affidato all'humour leggero di Leo Gullotta. Che non si limita a indossare le vesti dell'impresario e ricompare, come Fregoli, travestito da direttore dell'orchestrina della serenata (un omaggio a Totò), da cameriera, da guardia, da notaio, eccetera eccetera.
Tutto è divertente ma, se ci si aggiungono le controscene a getto continuo, i balletti, le sartine che aggiustano in scena i costumi ai cantanti, i quattro moschettieri (di cui due sono Gelmetti stesso, uno in formato mega e l'altro micro) e altro ancora che al momento mi sfugge, allora diventa veramente troppo e tarpa le ali all'esuberante vitalità della musica di Rossini, che scaturisce esclusivamente dai suoi meccanismi interni, mentre tutto questo bailamme è precariamente appiccicato allo strato più superficiale della comicità del Barbiere.
Un ritorno all'antico sono anche le scene dipinte, ma in questo caso non c'è assolutamente nulla da obiettare, tutt'altro: anche un palcoscenico angusto come quello del Nazionale può così accogliere piazzette, scale e vicoli di Siviglia. Piacevolmente tradizionali anche i costumi. Il tutto affidato a Maurizio Varamo e Anna Biagiotti, responsabili rispettivamente dei reparti scenografia e sartoria del teatro.
Liberandosi dell'improvvisato costume da capocomico e salendo sul podio per riassumere le sue vesti di direttore e concertatore, Gelmetti è ritornato a un Rossini più filologico, leggero, scattante e colorato, ma ogni tanto il capocomico rispuntava in lui e si sfiorava la sguaiataggine bandistica. Protagonista era Massimiliano Gagliardo, giovane e quindi esente da gigionerie e vizi: ma forse Figaro è un ostacolo posto qualche centimetro al di sopra della sua attuale impostazione vocale, che andrebbe consolidata. Raul Giménez è un Almaviva di stupenda eleganza e morbidezza, quindi incanta nella canzone del primo atto (e diverte quando usa questi stessi mezzi in chiave ironica nel travestimento di Don Alonso) ma non è totalmente a suo agio nei passi d'agilità, quindi decide di tagliare l'aria del secondo atto. D'altronde tutto il cast ha qualche piccolo limite vocale, che passa però in second'ordine rispetto ai non piccoli meriti d'ognuno: Laura Polverelli ha stile, tecnica e anche pepe a sufficienza per Rosina; Natale De Carolis è un Basilio misurato e insinuante; Bruno Praticò è un Bartolo grandioso, in tutti i sensi. Bravi anche Gian Piero Ruggeri (Fiorello e Ufficiale) e Laura Cherici (Berta).
Il teatro è poco capiente, i prezzi bassi, l'opera popolarissima, quindi finalmente si è potuto appendere il cartello del tutto esaurito. Qualche risata e qualche applauso durante la recita. Alla fine un trionfo, abilmente alimentato da un'astutissima cerimonia dei ringraziamenti.
Note: Nuovo allestimento
Interpreti: Polverelli/Bienkowska, Gagliardo/Bologna, Gimenez/Botta, Praticò/Morace, De Carolis, Ruggeri, Cherici/Cammarano, Gullotta
Regia: Gianluigi Gelmetti
Scene: Maurizio Varamo
Costumi: Anna Biagiotti
Coreografo: Alfonso Paganini
Orchestra: Orchestra Teatro dell'Opera
Direttore: Gianluigi Gelmetti
Coro: Coro Teatro dell'Opera
Maestro Coro: Andrea Giorgi