La lineare Medea di Reverdy
Recensione
classica
A Lione, in un teatro strapieno, è andata in scena la nuova opera di Michèle Reverdy, Medée, commissionata da Alain Durel per l'Opéra national de Lyon. Una Medea diversa da quella di Euripide, non la donna vendicativa che arriva ad uccidere i propri figli, ma una maga guaritrice, vittima dell'odio sociale e della violenza umana, che viene esiliata da Corinto, mentre i suoi figli sono lapidati dal popolo. La sessantenne compositrice francese - che ha già composto per il teatro l'opera Vincent, ispirata a Van Gogh e messa in scena nel 1990, Le Précepteur, tratta da Jakob Lenz e messa in scena alla Biennale di Monaco lo stesso anno, Le Château, da Kafka, Le fusil de chasse, da Yasuhi Inoue, messa in scena nel 1999 - ha cercato una drammaturgia lineare, narrativa, basata su un libretto (di Kai Stefan Fritsch e Bernard Banoun, tratto dal romanzo di Christa Wolf) così comprensibile da risultare talvolta didascalico. E ha creato una partitura piena di gesti drammatici (nonostante qualche abuso degli effetti di crescendo, e di accentuazioni dinamiche improvvise ma non sempre azzeccate), di invenzioni timbriche (ottenute sfruttando anche il cimbalom, il clavicembalo e un vasto set di percussioni tra le quali anche le pietre, usate per sottolineare il momento, fuori scena, della lapidazione dei figlioletti di Medea, "bambini maledetti" commentava il coro e inserite spesso con funzione di Leitmotiv), fitta di disegni dal sapore neoclassico, di trame contrappuntistiche, di pagine corali (del coro maschile) armonicamente seducenti. Le undici scene, che trascoloravano l'una nell'altra senza cesure (per uno spettacolo di due ore senza intervallo) erano tutte basate su un fondale-polittico costituito da tre giganteschi schermi rettangolari. Riproducevano filmati (a telecamera fissa, come foto animate) di un mondo mediterraneo, immagini riprese in Sicilia che mescolavano antichità greco-romane e scene di attualità: scorci marini e viadotti, templi antichi e ciminiere, strade cittadine e alberi mossi dal vento. Questo trittico raggiungeva il suo culmine drammatico con la proiezione di volti in primo piano, via via deformati e resi irriconoscibili dal colare di liquidi, come le tre donne nella straziante scena centrale (nella quale Glaucé svela l'assassinio della sorella Iphinoé da parte del padre), o i volti dei due figli di Medea (nella scena della lapidazione). Questi filmati, come la regia, le luci, i bellissimi costumi (alcuni personaggi in nero, altri coperti di stoffe e diademi che evocavano una nobiltà arcaica) erano firmati da Raoul Ruiz noto cineasta che ha già realizzato la messa in scena della Púrpura de la rosa, opera barocca di Tomás de Torrejón y Velasco -. L'opera, diretta Pascal Rophé, è stata interpretata da un cast di buon livello. Nei panni della protagonista era il soprano Françoise Masset, bene immedesimata nel suo ruolo (anche per lo sguardo invasato e la vaporosa acconicatura) ma non dotata di un bel timbro, difetto che la accomunava al Jason di Jean-Louis Serre. Colori più belli e morbidi avevano le voci del mezzosoprano Sophie Pondjiclis (Agamède), del basso Christian Tréguier (Akamas), e del soprano Magali Léger che ha impersonato una Glaucé di grande presenza scenica, espressiva, disinvolta, capace di molte sfumature.
Note: prima mondiale
Interpreti: Médée, Françoise Masset; Jason, Jean-Louis Serre; Akamas, Christian Tréguier; Glaucé, Magali Léger; Agamède, Sophie Pondjiclis
Regia: Raoul Ruiz
Scene: Raoul Ruiz
Costumi: Raoul Ruiz
Orchestra: Orchestra dell'Opéra
Direttore: Pascal Rophé
Coro: Coro dell'Opéra
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