Lo Scarpia di Raimondi vale il viaggio allo Sferisterio
Ancora una Tosca all'aperto: una buona realizzazione con qualche sospetto di routine, ma spicca lo Scarpia di Raimondi
Recensione
classica
Aida, Carmen, Tosca: proprio le opere condannate ai grandi palcoscenici all'aperto sono le meno adatte a subire questa deformante amplificazione spettacolare. Prendiamo Tosca. Nemmeno il drammone scritto da Sardou per una mattatrice come Sarah Bernhardt è soltanto una storiaccia a forti tinte in cui muoiono tutti, tanto meno lo è l'opera ben più concisa e moderna che ne trasse Puccini, in cui lo spettacolare Te Deum, la tortura strillata, l'accoltellamento sanguinolento e il teatrale suicidio non sono "grand-guignol" ma gli esiti d'un dramma complesso e sottile narrato con acume psicologico e senso teatrale straordinari. Poco ne resta in uno spettacolo all'aperto. Gilbert Deflo, che conoscevamo come regista intelligente e talvolta estroso, qui non può far altro che evitare il peggio. Rifuta le scenografie da cartolina illustrata, sostituendole con proiezioni in bianco e nero sullo sterminato muro che chiude lo Sferisterio, ed evita le pose melodrammatiche, ma per dinamizzare la recitazione non inventa molto altro che far andare i protagonisti, i comprimari e le comparse avanti e indietro a passo di carica sul lunghissimo palcoscenico. Unico momento da segnalare è l'ingresso della polizia papalina in Sant'Andrea, quando il festoso rosso dei chierichetti viene offuscato da uno sciame di sbirri simili a pipistrelli neri, tra cui spicca terribile e funesto Scarpia. Cercate d'immaginare lo Scarpia di Ruggero Raimondi, che è già grande di statura e diventa gigantesco grazie alla sua magnetica presenza scenica. Il timbro ha perso lo smalto, i vari registri sono disuguali, il fiato è amministrato con magistrali astuzie, talvolta ricorre anche a una specie di "Sprechgesang", ma non si lascia sfuggire un'inflessione, un sottinteso, un'allusione di questo personaggio, che altri trasformano in un orco e che invece è molto più terribile così, misurato e calcolato in ogni gesto e in ogni parola, come lo interpreta Raimondi. Lui è un vero grande interprete, gli altri sono soltanto delle voci. Ma, se si tiene conto di quel che si trova oggi al mercato delle voci, sono buone voci. Quella di Elisabete Matos ha un bel timbro e una duttilità sufficiente a seguire il mobile fraseggio pucciniano: era al suo debutto nel ruolo e questo può giustificare un'interpretazione piuttosto superficiale e si può giustificare anche la stecca al culmine di "Vissi d'arte", mascherata con astuzia e sangue freddo. Anche meno offre Marcello Giordani: c'è da preoccuparsi per quella che era una delle più belle voci di tenore lirico apparse negli ultimi anni e che ora inizia con una "Recondita armonia" freddina, prosegue con un "Vittoria! Vittoria!" stentato e conclude con un terzo atto piuttosto rauco. Tra i comprimari da segnalare Graziano Polidori (il sagrestano), Luca Casalin (Spoletta) e Leila Martinucci (un pastorello). La direzione di Renato Palombo aveva molti ottimi momenti e altri più generici: così ha ripulito la partitura da molti effettacci tradizionali ma non è riuscito a imporre compiutamente una sua chiara linea interpretativa. E ancora una volta è rimasto irrealizzato il sogno di sentire il suono delle campane di tutte le chiese di Roma provenire da tutti i lati, come se fossimo anche noi là sugli spalti di Castel Sant'Angelo: eppure questa sarebbe l'unica vera ragione per eseguire Tosca all'aperto.
Interpreti: Matos, Giordani, Raimondi, Graziosi, Polidori, Casalin, Mauti, Lupo, Martinucci
Regia: Gilbert Deflo
Scene: William Orlandi
Costumi: William Orlandi
Orchestra: Orchestra Filarmonica Marchigiana
Direttore: Renato Palombo
Coro: Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini"
Maestro Coro: Carlo Moranti
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