Le tante seduzioni di Aix-en-Provence
Mozart, Stravinskij, Bizet, Boesmans, Cavalli
“L’opera ha sempre intrattenuto un rapporto stretto con la libertà di pensiero e di espressione. In un momento della storia nel quale i valori di libertà e di democrazia sono contestati o combattuti un po’ dovunque nel mondo, non è inutile far risuonare queste opere con tutta la loro forza, di sondarne il carico emotivo e critico e di interrogarsi sulla loro pertinenza e attualità.” Così dichiara il direttore del Festival di Aix-en-Provence, Bernard Foccroulle, e magari qualcuno si aspetta un’edizione militante che reagisca all’integralismo che minaccia i valori repubblicani. In realtà, se si eccettuano i controlli di polizia all’ingresso delle sale, le scelte per l’edizione 2017 del festival confermano la linea artistica inaugurata da Foccroulle e definita nella fisionomia attuale nel corso della sua gestione decennale, che continua a godere del favore del pubblico, sempre molto presente e generoso di applausi ai numerosi appuntamenti in cartellone.
Una linea che si traduce in un programma ad alto tasso di di seduttori e libertini, con un nuovo “Don Giovanni” in ossequio alla tradizione mozartiana del festival, una “Carmen” messa sul lettino dello psicoanalista da Tcherniakov, un “Rake’s Progress” che conclude il ciclo Stravinskij, una quasi inedita “Erismena” di Francesco Cavalli e un nuovo “Pinocchio” firmato da Philippe Boesmans e Joël Pommerat. Il libertino messo in croce Vent’anni fa a Aix-en-Provence si vide un “Don Giovanni” che fece gridare al miracolo. Era fatto di poco: niente scene, qualche oggetto di attrezzeria, abiti più che costumi di scena. Eppure quel “Don Giovanni”, così vicino alla sensibilità di noi spettatori, fu capace di esprimeva una forza e un’aderenza alla lezione mozartiana straordinarie. L’incontro fra due maestri del teatro musicale come Peter Brook e Claudio Abbado fece il miracolo. È fatto di poco anche il nuovo “Don Giovanni” andato in scena nel cortile dell’Archevêché: una semplice pedana, qualche sipario, qualche lampadina. Eppure quello pensato da Jean-François Sivadier è ben lontano dalla freschezza di quel vecchio spettacolo. Molto vicino nell’ispirazione alla sua “Traviata” di sapore espressionista vista a Aix nel 2011, questo “Don Giovanni” dà l’impressione di essere un saggio di scuola: artificioso, a tratti ampolloso, spesso insensato. Non c’è niente di provocatorio. Anzi. Ma è come se l’agile prosa di Da Ponte venisse pronunciata con l’enfasi tragica du un Racine, salvo correggere il tiro con qualche spiritosaggine abbastanza gratuita. Il gioco diacronico dei costumi (deliberatamente sciatti, di Virginie Gervaise), espediente metateatrale abusato, così come l’insistenza su una simbologia religiosa, che, specialmente in “Don Giovanni”, sembra mal riposta, aggiunge artificiosità senza davvero dare un segno preciso a questa ennesima rilettura di uno dei miti teatrali di ogni tempo. Soprattutto nella seconda parte il gioco si concentra sulle capacità acrobatiche del giovane e bel protagonista, Philippe Sly, che culminano con le convulsioni in mutande davanti al commendatore prima di spirare in posa da crocefissione. Ossia, come avvilire la grandezza del mito in poche semplici mosse. Un autentico martirio. Gli altri personaggi si muovono nelle rassicuranti pieghe della tradizione. Se Sivadier non è Brook, nemmeno Jérémie Rhorer ha il tocco di Abbado. C’è leggerezza anche nel suono (e le Cercle de l’Harmonie conferma le sue ottime qualità musicali), c’è spigliatezza nei tempi, quelle sì, ma manca all’appello il momento in cui il gioco diventa dramma. Manca insomma la densità tragica del “Don Giovanni”, che non è una semplice opera buffa come tante altre dell’epoca. Quanto agli interpreti, Philippe Sly canta Don Giovanni ma non è Don Giovanni, Nahuel di Pierro ha ottimi mezzi vocali ma l’interpretazione di Leporello è generica, Pavol Breslik conferisce a Don Ottavio accenti nobili ma dà l’impressione di essere un alieno in scena, Krzysztof Baczyk disegna un Masetto sanguigno a senso unico, e David Leigh è un Commendatore inconsistente. Meglio fa il comparto femminile, con Eleonora Buratto e Julie Fuchs capaci di dare vita alle due appassionate Donne (Anna e Evira rispettivamente) ma Julie Fuchs come Zerlina è meno brillante che in altre sue prove recenti. Il libertino di carta Non meno povero di mezzi ma assai più ricco di ispirazione l’altro libertino in cartellone, quello del “Rake’s progress”, che va in scena a sere alterne sullo stesso palcoscenico. La scena di Michael Levine è fatta di carta, come la carta delle stampe di Hogarth dalle quali l’opera di Stravinskij prende vita. È una scatola bianca nella quale le proiezioni di Will Duke dipingono gli ambienti che non hanno niente di archeologico, tranne la serena campagna dei Truelove che sembra un composto Constable. La città ha le mille luci delle nostre metropoli e lo smartphone trionfa con vidocamere e internet per dire dell’ossessione tutta contemporanea per l’immagine. La ridicolmente lussuosa “Wunderhaus” di Baba la Turk sembra il museo di tutte le stravaganze del mondo come un villone finto di Beverly Hills. Simon McBurney è così: ama la leggerezza. Lo aveva già dimostrato con il suo aereo “Zauberflöte” qui a Aix (che tornerà nella prossima edizione) fatto di scene disegnate a mano e di figurine che volano. Qui ha gioco facile perché leggero è già tutto nel bel libretto di Auden. A lui basta aggiungere un ritmo incalzante e una coreografia (di Leah Hausman) fluida e continua di cantanti, coro (i formidabili English Voices) e figuranti che rappresentano benissimo la parabola esistenziale di un moderno e sconsiderato Faust racchiusa fra le illusioni della noia rurale e le allucinazioni della sua mente svuotata. Nel finale, toccante, la scatola torna bianca non già come la pagina di un libro tutto da scrivere ma mostrando le molte ferite, gli strappi e i segni indelebili di una vita buttata. Funziona fortunatamente tutto anche in buca, dove Daniel Harding, infortunato, ha dovuto cedere il posto e la bacchetta a Eivind Gullberg Jensen. Qualche complicazione per via di movimenti che spesso superano la scena e invadono la sala, ma la concertazione è accurata e ben curato è l’intreccio strumentale, anche se forse piacerebbe sentire qualche colore di più. Compagine vocale diligente e aderente al progetto registico anche se con poche punte di eccellenza. Chi se la cava meglio è il “bad guy” Kyle Ketelsen, un proteiforme Nick Shadow dall’aria sorniona ma terribilissimo quando serve. Poco corpose ma corrette le prove di Paul Appleby (Tom Rakewell) e Julia Bullock (Ann Trulove), che strappa comunque l’applauso nella sua aria “Quietly, night”. Fra gli altri, si fa notare il controtenore Andrew Watts soprattutto per la sfrontata simpatia con cui disegna una Baba “in drag”, mentre David Pittsinger (Trulove), Hilary Summers (Mother Goose) e Alan Oke (Sellem) funzionano nel contesto. A don José è calato il desiderio Una coppia in crisi. Lui è abulico, lei molto preoccupata per la tenuta della coppia. Lei lo spinge a fare una terapia. Lui viene coinvolto in un gioco di ruolo nel quale reciterà don José e una seducente terapeuta quello di Carmen. La folla di figuranti e terapeuti “en travesti” terranno bordone. La moglie, gelosa, entra nel gioco e farà Micaëla. La terapia funziona fin troppo. La temperatura sale e il paziente risponde. La psico-Carmen si preoccupa che la situazione sfugga di mano ma deve stare al gioco (“sei una professionista”, le ricordano). Come finisce? La cura è riuscita: il paziente è (quasi) morto. È la “Carmen” in versione da camera o, meglio, da studio di psicoanalista secondo Dimitri Tcherniakov. Più che altro la sua puzza di furbata, anche se ben condotta con fredda eleganza come l’asettico salone in stile vintage sovietico che ospita la terapia. Una furbata perfettamente coerente con la tradizionale resistenza del regista russo a sottomersi alla dittatura della convenzione: meglio raccontare un’altra storia (vedasi, tanto per restare a Aix, il suo “Don Giovanni” in un interno familiare di qualche stagione fa). Operazione radicale? Fino a un certo punto. Tcherniakov si limita al taglio totale di dialoghi e/o dei recitativi apocrifi di Ernest Giraud (sostituiti dalla lettura delle didascalie come da libretto) ma la sequenza dei numeri musicali la lascia intatta per non rischiare, supponiamo, l’accusa di lesa maestà. Il risultato? Un compromesso, che appesantisce l’idea del regista russo con episodi che, giustificati nel tessuto drammaturgico originale, risultano del tutto ridondanti (per esempio, il quintetto del secondo atto e il coro dei contrabbandieri del terzo), per tacere di innesti del tutto gratuiti persino nell’economia del racconto tcherniakoviano (Micaëla che simula una focosa seduzione di Escamillo nel terzo atto). Con molto più coraggio e ben altri risultati Peter Brook (sì, sempre lui!) trent’anni fa aveva davvero inciso nella carne viva della partitura bizetiana per ricavarne l’essenza più autentica. Invece, Tcherniakov si ritrova di più nei panni del rivoluzionario prudente (e un po’ modaiolo). La musica, dunque, procede per suo conto ed è un bene perché la prova di Pablo Heras-Casado alla testa dell’Orchestre de Paris, anche quest’anno in residenza al Festival, è di quelle che lasciano un segno: bellissimo il suono e trascinanti i tempi. Ci si potrebbe pure entusiasmare se invece non entrasse un trainer con il suo blocco di note a ricordarti che siamo nel mezzo di una terapia … Aderiscono perfettamente al gioco i protagonisti. Stephanie d’Oustrac ha certamente il physique du rôle per essere una Carmen credibile, moderna seduttrice , ma anche sul piano vocale si coglie la sua intelligenza di interprete. Michael Fabiano come Don José manca di sfumature ma certamente non di mezzi vocali, che esibisce con virile vigore. Già mal servito da un disegno registico abborracciato, l’Escamillo di Michael Todd Simpson non lascia quasi traccia nemmeno sul piano vocale. Meglio la luminosa Micaëla della giovane Elsa Dreisig, anche lei molto calata nel ruolo della moglie in ambasce per marito poco reattivo. Ben scelti anche gli altri (e specialmente il quartetto Gabrielle Philiponet, Virginie Verrez, Guillaume Andrieux e Matthias Vidal) e il bravissimo coro Aedes, vero pilastro per la tenuta dello spettacolo. Se Pinocchio parla la nostra lingua Philippe Boesmans fa pensare a un artigiano di tempi passati per l’amore e la cura che mette nelle sue creazioni e particolarmente nel suo ultimo lavoro, “Pinocchio”, tenuto a battesimo sulla scena del Grand-Théâtre de Provence e da settembre alla Monnaie di Bruxelles che coproduce. Per un soggetto al di là del tempo come lo sono i classici, Boesmans crea una musica cesellatissima e fuori dal tempo e dalle mode, nella quale si avverte appena qualche inquietudine del nostro tempo. Nel corpo orchestrale dalle linee marcatamente classiche, Boesmans innesta un trio di improvvisatori guidati da Fabrizio Cassol al sax con Philippe Thuriot alla fisarmonica e Tcha Limberger al violino. La versione della favola non è quella originale di Collodi ma quella adattata per la scena teatrale dal drammaturgo Joël Pommerat, che firma anche la riduzione a libretto. Nel trattamento di Pommerat, un certo sapore popolaresco dell’originale cede il passo a un linguaggio marcatamente poetico pur nel realismo scelto come chiave drammaturgica. Spazzati via gli zoomorfismi pedagogici collodiani e semplificata la vicenda, la storia del burattino che diventò bambino prende corpo attraverso il racconto del capocomico le cui parole evocano delle immagini che nascono dal buio, come in un sogno. Il burattino sfrontatissimo e crudele parla la lingua schietta delle periferie e i personaggi di un piccolo mondo di periferia sono tutti gli altri personaggi, truffatori, assassini, equivoche cantanti di cabaret ma anche il misero padre, il severo maestro di scuola e anche quella fata che ha i capelli neri e non turchini così modesta e saggia, come chi ne ha viste tante. Lei redarguisce benevolmente il burattino e lo consiglia ma lui caparbiamente sbaglia e segue comunque quel cammino che un giorno, senza sapere nemmeno perché, lo rende bambino vero e con un nome. E con il padre si consegna docile alla galleria dei personaggi del capocomico, tutti allineati su due file come in una vecchia foto in posa di altri tempi. Sembra davvero un lavoro fuori dal tempo questo nuovo “Pinocchio”, che non è opera destinata ai soli bambini ma a chi vuole abbandonarsi al respiro lento e alla materia intangibile della poesia. Di Della stessa materia sono fatte anche le immagini, bellissime, create per la scena dal regista Joël Pommerat con la vitale complicità dello scenografo e light-designer Éric Soyer e del videomaker Renaud Rubiano. La musica è servita benissimo da un insieme di interpreti tutti perfettamente intonati a una scriuttura vocale non facile né banale. Bravissimo è il capocomico Stéphane Degout che tiene e svolgere il filo del racconto seguendo linee flessuose e visionarie. Bravissime sono le tre soprano Chloé Briot, Marie-Eve Munger e Julie Boulianne nel porgere i fiori vocali messi punto da Boesmans rispettivamente per il burattino, la fata e la cantante di cabaret (che è anche lo scolaro cattivo ossia Lucignolo). Caratteristi di lusso, Vincent Le Texier e Yann Beuron si divertono a dare corpo a tutti i buoni e cattivi della storia con una cura particolare alla chiarezza della parola scenica. Dalla buca, il Klangforum di Vienna guidato da Emilio Pomárico fa brillare le sonorità liquide e sognanti distillate da Boesmans per questo suo “Pinocchio”. L’erotismo di Erismena Francesco Cavalli gode sempre di buona salute a Aix-en-Provence. Già “Elena” nel 2013 aveva fatto il pienone grazie soprattutto al passaparola fra spettatori, e si trattava ceratamente di una delle migliori produzioni di una edizione davvero notevole per qualità dell’offerta (era l’anno della “Elektra” di Chéreau per capirci). Quest’anno sulla scena del piccolo Théatre de Jeu de Paume arriva “Erismena” e, almeno in parte, si ripete il successo. A differenza dello sfondo epico-mitologico di “Elena”, “Erismena” è opera di soggetto storico ma la formula rimane quella più tipica di Cavalli: passo veloce, colpi di scena a raffica, personaggi disegnati con pennellate rapide ma molto incisive, travestimenti e equivoci, erotismo esplicito e promiscuità sessuale allegramente ripartita fra i vari personaggi. Andata in scena nel veneziano Teatro di San Apollineare nel dicembre del 1655, l’opera ha per protagonista Erismena, che si traveste da soldato nelle fila degli armeni in armi contro i medi per ritrovare l’amato Idraspe. Gli armeni sono sconfitti e lei è fatta prigioniera dal tirannico re Erimante. Di lei/lui si invaghisce Aldimira, principessa armena, che già possiede due amanti nelle figure del principe colco Orimeno e nel coppiere Erineo (che in realtà è Idraspe sotto mentite spoglie), mentre le profferte di re Erimante la lasciano indifferente. Non semplice già in partenza, il plot si complica ulteriormente con colpi di scena a raffica fino allo scioglimento con un’incredibile catena di agnizioni che rivelano che Erismena non solo è donna ma è figlia di Erimante e che Aldimira è in realtà sorella di Erineo/Idraspe, fatto che la toglie dall’impaccio della scelta e la spedisce fra le braccia di Orimeno. E con questo finalmente l’unione fra Erismena e Idraspe si può celebrare con la benedizione del re. Come sempre in Cavalli, si muove una costellazione di personaggi minori che osservano e commentano le stravaganze dei potenti. Qui la parte del leone la fa Alcesta, nutrice sfiorita di Aldimira ma ancora in piena fregola, pronta a dispensare perle interessate di saggezza a chi la burla per l’età matura (“Vecchiarella, che d’Amore / porta in seno il cor piagato, / con mill’arti, che hà imparato / sodisfar sa l’amatore, / e per meglio comprar l’affetto humano, / ha l’argento su’l crin e l’oro in mano”). Chi trasuda torrida sensualità è invece la coppia dei servi di Orimeno, Argippo, e di Aldimira, Flerida: più che schermaglie amorose, la donna stuzzica l’amante con messaggi molto epliciti (“Meco tu fingi asprezza / usa pur la durezza / sdegnosetto pur taci, / quanto più tu t’induri a me più piaci”) che rapidamente portano l’uomo a capitolare (“Con dolce gioire / scacciami quel martire, / che l’alma ci rode / non è vero piacer, se non si gode”). Di questa scanzonata gioiosità Jean Bellorini coglie bene lo spirito nel suo agile spettacolo. Un certo gusto pauperistico nelle essenziali scelte scenografiche dello stesso Bellorini con Véronique Chazal e nei costumi dall’aria raccogliticcia scelti da Macha Makaïeff contribuisce un’idea di improvvisazione, che giova comunque alla freschezza e spontaneità dello spettacolo. Fresche anche tutte le voci in scena, guidate con la perizia di uno specialista come Leonardo García Alarcón e accompagnate dai bravi strumentisti della Cappella Mediterranea. Francesca Aspromonte disegna una Erismena palpitante e focosa, Susanna Hurrell è una capricciosa Aldimira mentre i due amanti sono Jakub Józef Orliński, un atletico Orimeno, e Carlo Vistoli, un languoroso Idraspe. Tutti interpreti di spessore anche per i ruoli minori, fra i quali si distingue la spiritosa Alcesta, che ha il fisico massiccio avvolto in tailleur rosa di Stuart Jackson, e i due servi amanti Lea Desandre e Andrea Bonsignore.Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
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