Due Rossini per Livermore
Rossini Opera Festival seconda parte
Recensione
classica
Anche nella seconda opera in programma al Rof la regia ha fatto di tutto per attirare l’attenzione su di sé, questa volta giocando sull’idea che i personaggi del Turco in Italia possano essere assimilati a quelli dei film di Fellini. Ecco allora che Davide Livermore fa iniziare l’opera con un breve prologo recitato, che ha la funzione di farci capire che siamo su un set cinematografico. Anche se i cantanti non somigliano molto ai loro modelli, nel Poeta si riconosce il regista di Otto e mezzo, il turco Selim è ovviamente lo Sceicco bianco e così via. Ma i sette protagonisti non bastano a incarnare tutti i personaggi felliniani che Livermore vuole citare, quindi entra in scena una miriade di figuranti che incarnano più o meno fedelmente qualche personaggio di quelle mitiche pellicole. Ma non si strizza l’occhio solo ai film di Fellini, perché – per esempio – Selim è vestito come Alberto Sordi nello Sceicco bianco ma ripete come un tormentone il saluto “all’americana” dello stesso Sordi in Un americano a Roma di Steno. Il giochino di riconoscere tutte queste citazioni può essere divertente per qualche minuto, poi l’idea registica mostra la corda e finisce per stancare e disturbare, dando l’impressione che Livermore si occupi più di mettere in scena la propria trovata opinabile, superflua e un po’ goliardica che di fare una vera regia del Turco.
Ma dopo l’intervallo sembra ripensarci e la pletora di personaggi felliniani sparisce quasi totalmente, tranne che nella scena del ballo in maschera, dove la loro presenza è effettivamente giustificata. L’esecuzione musicale fa quel che può per riscattare Rossini. Pietro Spagnoli è un Poeta di grandissima classe, ma la trasformazione in un sosia di Fellini toglie qualcosa alla funzione leggermente inquietante, misteriosa e un po’ “pirandelliana” di questo autore in cerca di sei personaggi. Perfetto anche il Geronio di Nicola Alaimo. Gli abiti di Fiorilla vanno a pennello ad Olga Peretyatko, spiritosa, maliziosa, sexy; ma, ora che è passata a ruoli più drammatici, rossiniani e non, la sua voce non si trova completamente a suo agio in questa parte di soprano leggero, che tuttavia le offrirebbe anche un’aria patetica e “seria” nel secondo atto. Erwin Schrott appare un po' sciatto: palesemente ha scarsa dimestichezza con Rossini, ma non se ne preoccupa molto e punta soprattutto sulla sua presenza scenica. Modesto il Narciso di René Barbera, trasformato chissà perché in prete. Bravi e spiritosi Cecilia Molinari e Pietro Adaini, rispettivamente Zaida e Albazar. Speranza Scappucci ha diretto in modo brillante e l’Orchestra Filarmonica Gioachino Rossini la seguita in modo non molto brillante ma sufficientemente preciso, dopo qualche difficoltà nella Sinfonia: ma siamo disposti ad accettare questi piccoli inconvenienti, se si tratta di incoraggiare una giovane e volenterosa formazione, che miglioraogni anno, dimostrando così la sua volontà e le sue possibilità.
La terza e ultima opera in programma al Rof dimostrava che un’idea originale come mettere in parallelo opera e cinema non è sempre sbagliata. Molto dipende da come la si mette in pratica. Lo stesso Davide Livermore portando in scena il Ciro in Babilonia (la produzione è del 2012 e giornaledellamusica.it ne ha già riferito a suo tempo) aveva pensato che questo tipo di opere potessero essere per il pubblico della loro epoca quel che cento anni dopo sarebbero stati i primi Kolossal del cinema muto a soggetto biblico o pseudo storico. Ha riprodotto dunque sulla scena operistica quella gestualità enfatica, quegli occhi bistrati, quelle parrucche e quelle barbe clamorosamente posticce e perfino i colori virati al seppia e le righe verticali che affliggono le vecchie pellicole. In questo caso tutto ciò non stonava affatto con la grandiosità a buon mercato e la drammaticità destinata a tenere col fiato sospeso un pubblico ingenuo e credulone, propinate del librettista Francesco Aventi al giovanissimo Rossini. Dirigeva un'altra giovane promessa, Jader Bignamini, che dopo aver dimostrato di avere Verdi nel sangue, sta ora facendo esperienza anche in Rossini. I protagonisti in scena erano gli stessi dell'edizione del 2012, cioè Ewa Podles, che ha una voce straordinaria di vero contralto ma comincia a nascondere con qualche difficoltà l'usura del tempo, e Antonino Siragusa, che ai suoi acuti penetranti e infallibili aggiunge ora un buon registro centrale. Accanto a loro una sorpresa veramente piacevole era Pretty Yende, che all'inizio sembrava un po' tesa ma poi ha mostrato bel timbro e agilità fluide e precise. Un’ultima considerazione: paragonando Ciro in Babilonia (1812) a La Donna del Lago (1820) si è impressionati dall'enorme cambiamento avvenuto in così pochi anni… evidentemente un genio di vent’anni corre veloce.
Ma dopo l’intervallo sembra ripensarci e la pletora di personaggi felliniani sparisce quasi totalmente, tranne che nella scena del ballo in maschera, dove la loro presenza è effettivamente giustificata. L’esecuzione musicale fa quel che può per riscattare Rossini. Pietro Spagnoli è un Poeta di grandissima classe, ma la trasformazione in un sosia di Fellini toglie qualcosa alla funzione leggermente inquietante, misteriosa e un po’ “pirandelliana” di questo autore in cerca di sei personaggi. Perfetto anche il Geronio di Nicola Alaimo. Gli abiti di Fiorilla vanno a pennello ad Olga Peretyatko, spiritosa, maliziosa, sexy; ma, ora che è passata a ruoli più drammatici, rossiniani e non, la sua voce non si trova completamente a suo agio in questa parte di soprano leggero, che tuttavia le offrirebbe anche un’aria patetica e “seria” nel secondo atto. Erwin Schrott appare un po' sciatto: palesemente ha scarsa dimestichezza con Rossini, ma non se ne preoccupa molto e punta soprattutto sulla sua presenza scenica. Modesto il Narciso di René Barbera, trasformato chissà perché in prete. Bravi e spiritosi Cecilia Molinari e Pietro Adaini, rispettivamente Zaida e Albazar. Speranza Scappucci ha diretto in modo brillante e l’Orchestra Filarmonica Gioachino Rossini la seguita in modo non molto brillante ma sufficientemente preciso, dopo qualche difficoltà nella Sinfonia: ma siamo disposti ad accettare questi piccoli inconvenienti, se si tratta di incoraggiare una giovane e volenterosa formazione, che miglioraogni anno, dimostrando così la sua volontà e le sue possibilità.
La terza e ultima opera in programma al Rof dimostrava che un’idea originale come mettere in parallelo opera e cinema non è sempre sbagliata. Molto dipende da come la si mette in pratica. Lo stesso Davide Livermore portando in scena il Ciro in Babilonia (la produzione è del 2012 e giornaledellamusica.it ne ha già riferito a suo tempo) aveva pensato che questo tipo di opere potessero essere per il pubblico della loro epoca quel che cento anni dopo sarebbero stati i primi Kolossal del cinema muto a soggetto biblico o pseudo storico. Ha riprodotto dunque sulla scena operistica quella gestualità enfatica, quegli occhi bistrati, quelle parrucche e quelle barbe clamorosamente posticce e perfino i colori virati al seppia e le righe verticali che affliggono le vecchie pellicole. In questo caso tutto ciò non stonava affatto con la grandiosità a buon mercato e la drammaticità destinata a tenere col fiato sospeso un pubblico ingenuo e credulone, propinate del librettista Francesco Aventi al giovanissimo Rossini. Dirigeva un'altra giovane promessa, Jader Bignamini, che dopo aver dimostrato di avere Verdi nel sangue, sta ora facendo esperienza anche in Rossini. I protagonisti in scena erano gli stessi dell'edizione del 2012, cioè Ewa Podles, che ha una voce straordinaria di vero contralto ma comincia a nascondere con qualche difficoltà l'usura del tempo, e Antonino Siragusa, che ai suoi acuti penetranti e infallibili aggiunge ora un buon registro centrale. Accanto a loro una sorpresa veramente piacevole era Pretty Yende, che all'inizio sembrava un po' tesa ma poi ha mostrato bel timbro e agilità fluide e precise. Un’ultima considerazione: paragonando Ciro in Babilonia (1812) a La Donna del Lago (1820) si è impressionati dall'enorme cambiamento avvenuto in così pochi anni… evidentemente un genio di vent’anni corre veloce.
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