Mantova città della musica
Si è concluso Trame sonore
Recensione
classica
Le"Trame sonore" del Mantova chamber music festival (che si è concluso domenica) si estendono ovunque in città. E’ vero, le scene da festival sono sempre le stesse: tante custodie di strumenti di forme e colori diverse a spasso, musica che arriva dalle finestre dei molti b&b trasformati in sale prove, incontri prestigiosi capitati per caso. Eppure girare per le strade e riconoscere Alfred Brendel e Alexander Lonquich non è cosa da tutti i giorni. E ciò per limitarsi alle presenze tutelari di questo meraviglioso festival che in cinque giorni (per i fortunati, beati loro, che riescono a seguirlo dall’inizio alla fine) “costringe” al più bel giro panoramico di una città che sorprende per il suo patrimonio storico: se non si è in possesso di un premium pass infatti, la corsa al biglietto può diventare un lavoro impegnativo e fondamentale per assicurarsi un posto ai concerti che sono seguitissimi dal primo mattino sino a mezzanotte. Inoltre, da non mantovani, e per quanto i concerti siano concentrati nel cuore del centro storico, un bel giro esplorativo preventivo è indispensabile per fissare la mappa dei luoghi.
Una locandina del festival affissa sulla vetrina di un alimentari cita Thoreau: “Quando ascolto musica non temo pericoli”. Verrebbe da chiedersi quale musica ascoltasse il poeta, perché se la musica è profonda e gli interpreti pure le tentazioni e i “cattivi pensieri” non ci vengono risparmiati. Non che questo sia un male. Anzi. Il più delle volte andiamo a cercarceli. Le “trame sonore” mantovane sono molteplici e tessute fitte fitte: quest’anno c’era il focus mozartiano con i concerti eseguiti dall’Orchestra da camera di Mantova e un corteo di solisti straordinari (Lonquich che ha aperto il festival col Concerto n. 22, Reto Bieri che ha eseguito il Concerto per clarinetto col corno di bassetto e lì i musicisti dell’orchestra hanno suonato rigorosamente in piedi), la musica contemporanea in uno spazio espositivo collegato al Palazzo Ducale, i concerti sull’organo del Seicento a Santa Barbara, la rassegna a Palazzo Te con i bravissimi giovani della classe di musica da camera dell’Accademia di Santa Cecilia (il docente, Carlo Fabiano, è il direttore artistico del festival e fondatore e spalla dell’Orchestra da camera di Mantova: praticamente un missionario al servizio della musica e dei giovani, oltre che un musicista di altissimo livello), le sessioni bachiane alla Rotonda di San Lorenzo dove pure per tre sere a mezzanotte circa Pietro De Maria, Gianluca Cascioli e Anna Kravtchenko hanno suonato i Notturni di Chopin (con conseguente elisir della buonanotte servito in un bar vicino) e infine gli incontri in forma di dialogo all’ora del caffè (uno appunto con Brendel e Bietti).
Premesso che è impossibile seguire tutto, queste note non sono cronaca ma un modo per mettere in ordine le impressioni di un’esperienza intensa. La prima riguarda il repertorio, molto vasto e che pur ricercando tra brani di autori meno eseguiti (una sorpresa inaspettata il Trio op. 30 per violino, viola e pianoforte del belga Joseph Jongen: un lavoro del 1907 che contiene tutte le suggestioni di quegli anni con una scrittura pianistica particolarmente curata e complessa), concede anche di ascoltare capolavori più noti del repertorio romantico (Schubert, Schumann, Brahms): ottimo compromesso per allentare la tensione mentale nelle impegnative maratone d’ascolto. La seconda riguarda gli interpreti: premesso che il livello è sempre molto alto, e che non abbiamo potuto ascoltare tutti gli ospiti del festival (solo tra i violinisti abbiamo mancato Dora Schwarzberg e Viviane Hagner!!!), resterà indelebile il ricordo del Trio in fa minore op. 65 di Dvorak ascoltato in seconda serata da Vilde Frang al violino, Nicolas Altstaedt al violoncello e Lonquich al pianoforte: 40 minuti di impeto e passione, malinconia, struggimento esaltati da una ricerca sonora volutamente “impressionista”, per alcuni troppo lontana da un autore tanto vicino a Brahms. Non per noi. Insomma 40 minuti di “cattivi pensieri”. Alla fine tra le lacrime, mentre ti unisci a un applauso che è pura ovazione pensi – con buona pace di Thoreau – che per essere al sicuro nella vita basta non rischiare, chiudere la mente e soprattutto rinunciare alla musica. Anche solo quella ascoltata. La fine della lezione di Brendel è stata – forse non a caso – “imparate a sentire e non solo a pensare”.
Una locandina del festival affissa sulla vetrina di un alimentari cita Thoreau: “Quando ascolto musica non temo pericoli”. Verrebbe da chiedersi quale musica ascoltasse il poeta, perché se la musica è profonda e gli interpreti pure le tentazioni e i “cattivi pensieri” non ci vengono risparmiati. Non che questo sia un male. Anzi. Il più delle volte andiamo a cercarceli. Le “trame sonore” mantovane sono molteplici e tessute fitte fitte: quest’anno c’era il focus mozartiano con i concerti eseguiti dall’Orchestra da camera di Mantova e un corteo di solisti straordinari (Lonquich che ha aperto il festival col Concerto n. 22, Reto Bieri che ha eseguito il Concerto per clarinetto col corno di bassetto e lì i musicisti dell’orchestra hanno suonato rigorosamente in piedi), la musica contemporanea in uno spazio espositivo collegato al Palazzo Ducale, i concerti sull’organo del Seicento a Santa Barbara, la rassegna a Palazzo Te con i bravissimi giovani della classe di musica da camera dell’Accademia di Santa Cecilia (il docente, Carlo Fabiano, è il direttore artistico del festival e fondatore e spalla dell’Orchestra da camera di Mantova: praticamente un missionario al servizio della musica e dei giovani, oltre che un musicista di altissimo livello), le sessioni bachiane alla Rotonda di San Lorenzo dove pure per tre sere a mezzanotte circa Pietro De Maria, Gianluca Cascioli e Anna Kravtchenko hanno suonato i Notturni di Chopin (con conseguente elisir della buonanotte servito in un bar vicino) e infine gli incontri in forma di dialogo all’ora del caffè (uno appunto con Brendel e Bietti).
Premesso che è impossibile seguire tutto, queste note non sono cronaca ma un modo per mettere in ordine le impressioni di un’esperienza intensa. La prima riguarda il repertorio, molto vasto e che pur ricercando tra brani di autori meno eseguiti (una sorpresa inaspettata il Trio op. 30 per violino, viola e pianoforte del belga Joseph Jongen: un lavoro del 1907 che contiene tutte le suggestioni di quegli anni con una scrittura pianistica particolarmente curata e complessa), concede anche di ascoltare capolavori più noti del repertorio romantico (Schubert, Schumann, Brahms): ottimo compromesso per allentare la tensione mentale nelle impegnative maratone d’ascolto. La seconda riguarda gli interpreti: premesso che il livello è sempre molto alto, e che non abbiamo potuto ascoltare tutti gli ospiti del festival (solo tra i violinisti abbiamo mancato Dora Schwarzberg e Viviane Hagner!!!), resterà indelebile il ricordo del Trio in fa minore op. 65 di Dvorak ascoltato in seconda serata da Vilde Frang al violino, Nicolas Altstaedt al violoncello e Lonquich al pianoforte: 40 minuti di impeto e passione, malinconia, struggimento esaltati da una ricerca sonora volutamente “impressionista”, per alcuni troppo lontana da un autore tanto vicino a Brahms. Non per noi. Insomma 40 minuti di “cattivi pensieri”. Alla fine tra le lacrime, mentre ti unisci a un applauso che è pura ovazione pensi – con buona pace di Thoreau – che per essere al sicuro nella vita basta non rischiare, chiudere la mente e soprattutto rinunciare alla musica. Anche solo quella ascoltata. La fine della lezione di Brendel è stata – forse non a caso – “imparate a sentire e non solo a pensare”.
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