La cena dei boss

Scala: Martone mette in scena l'opera di Giordano

Recensione
classica
La mazza da baseball al posto della roncola, i mitra al posto delle spade: Mario Martone per mettere in scena “La cena delle beffe” di Giordano sposta l’azione dalla Firenze di Lorenzo il Magnifico alla Little Italy degli Anni Venti (l’opera di Giordano debuttò alla Scala nel 1924). Quindi niente velluti e parrucche alla paggetto che fanno tanto Nazzari nel film di Blasetti e invece elegantissimi abiti per le donne, gessati e Borsalino per gli uomini e soprattutto una affascinante scenografia di Margherita Palli che scorrendo verticalmente porta sul palco il ristorante al piano terreno, l’alloggio di Ginevra al primo piano e le cantine per la tortura di Neri. Superato qualche scoglio librettistico (i riferimenti all’Arno e a Pisa o termini desueti in bocca a un boss come “ragna, messere o madonna”) lo spettatore dimentica il passato fiorentino di Sem Benelli e si cala senza problemi nella vicenda che sfila perfetta con la sfida tra due gang e la pupa contesa.

Per Giannetto Giordano traccia un ruolo tenorile impervio, sempre sull’acuto, sempre sull’enfasi: Hipolito Lazaro, primo interprete del ruolo, al termine delle recite scrisse al compositore che non lo avrebbe mai più interpretato perché non voleva rovinarsi la carriera. Marco Berti è un Giannetto pavido e improvvisamente coraggioso, appassionato e vendicativo e affronta con coraggio l’impervia vocalità giordaniana, il suo rivale è un efficace Nicola Alaimo, spaccone e violento, Carlo Rizzi crede in questa partitura e la dirige con passione e qualche sonorità eccessiva. Giordano cerca una strada nuova rispetto a Chènier e Fedora, non sempre riesce a rinnovarsi, certe scelte oggi ci appaiono particolarmente datate, ma la scena della tortura del terzo atto (c’è perfino un ottetto, nel 1924!) e tutto l’ultimo atto dimostrano la grande capacità di descrivere un clima psicologico e di tensione degno di un grande operista.

Dove però la regia calca troppo la mano è nel finale, con una carneficina degna della Strage di San Valentino. L’unico personaggio buono, veramente buono di tutta l’opera è Lisabetta, infelicemente innamorata di Neri, Martone la trasforma invece in una vendicatrice che proprio sulle note finali entra in scena con il mitra e stermina Giannetto e i suoi. Era molto più toccante il finale benelliano con la pazzia di Neri e il suo balbettio allucinato.

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