Le star di Bucarest

Grandi interpreti al Festival Enescu

Recensione
classica
Bucarest non ha fama di essere una bella città, invece la zona del centro con i suoi edifici liberty e déco, le sue superstiti chiesette ortodosse e i suoi innumerevoli caffé è molto gradevole, come anche alcune zone di villette dei primi del Novecento - tra cui quella di Enescu - circondate da giardini. I parchi sono ampi e ben curati, con erba verdissima - nonostante i 35 gradi - e perfettamente tosata, che lascia di stucco chi ha lasciato a Roma un cosiddetto "verde pubblico" ridotto a steppa inaridita. E non si vede un pezzo di carta per terra. Il traffico scorre ordinato. Le persone sono gentili e disponibili. Dopo due giorni passati lì è dura tornarsene a casa nel terzo mondo, anche perché, se si restasse altri due giorni, si potrebbero sentire la Pires, Pinnock, la London Symphony e la Mutter... e così via fino al 20 settembre. Comunque un weekend al George Enescu Festival è stato sufficiente a fare un pieno di musica.

Il ritmo delle due giornate è stato questo: alle 16.30 concerto pianistico nella bella sala ottocentesca dell'Ateneul Român, alle 19.30 concerto sinfonico nella poco distante grande sala d'epoca comunista del Palatul, alle 22.30 di nuovo all'Ateneul per un concerto barocco. I due recital erano affidati a Murray Perahia e Elisabeth (non più Elizaveta, perché da quasi quarant'anni è cittadina austriaca) Leonskaja, un americano e una russa, entrambi sui settant'anni, che negli ultimi anni non si sono ascoltati spesso in Italia. Abbiamo ritrovato Perahia uguale a se stesso: ovviamente questo è un complimento. Il suo approccio alla musica è sempre rigoroso, oggettivo, non si concede slanci, abbandoni e altri personalismi, tutto è calibrato e chiaro, sembra semplicissimo, ma è perfetto e può sfiorare il sublime. Questo approccio mette in solare evidenza le strutture - geniali nella loro semplicità - della Sonata n. 31 e delle Variazioni in fa minore di Haydn, ma paga un tributo all'idea un po' superata di classicismo come regolarità, sacrificando gli scarti e le sorprese, che non mancano in questa musica. Questo lavoro di scavo teso ad evidenziare e chiarificare le strutture musicali ha del miracoloso di fronte all'enorme complessità della "Hammerklavier", anche perché qui il percorso è così intricato che è obbligatorio fare delle scelte personali e quindi è scongiurata la prevedibilità. Delle Variazioni Haendel di Brahms esiste una splendida incisione di Perahia, perché la loro complessità contrappuntistica è l'ideale per la sua mente rigorosa, ma i cinque pezzi dalle opp. 116, 118 e 119 del compositore amburghese eseguiti in questo concerto sono piaciuti meno, perché il pianista ha cercato anche qui il Brahms contrappuntista - che c'è - ma non si è curato molto dei colori soffusi e dei sentimenti autunnali che caratterizzano queste brevi pagine in forma libera.

La Leonskaja - collaboratrice e amica di Sviatoslav Richter, cui ha dedicato il suo concerto - è una degli ultimi grandi pianisti usciti dalla gloriosa scuola russa nel periodo sovietico. Anche lei, come Perahia, è agli antipodi del divismo, ma non nasconde la propria personalità dietro la ricerca di una lettura oggettiva. Ogni sua interpretazione è una scommessa che si gioca gettando sul tavolo verde personalità, energia e passione: ogni volta è una sfida, però la Leonskaja vince sempre. Si viene rapiti fin dalla prima battuta e si arriva alla fine quasi frastornati, senza essersi resi ben conto di quel che è successo. Quel che ci sentiamo di poter dire è che il suo Schubert (Sonata D 850 "Gastein") e il suo Brahms (Sonata op. 5) sono stati bellissimi e anche molto sorprendenti: sembravano essersi scambiati i ruoli, Schubert più energico e più proiettato verso una moderna ricerca formale, Brahms più delicato e più ossequioso della tradizione.

Ma il punto di forza del Festival Enescu è la superlativa rassegna di orchestre. Abbiamo ascoltato il secondo dei due concerti della Staatskapelle Dresden e del suo direttore musicale Christian Thielemann, con un programma totalmente straussiano. L'orchestra di Dresda viene relativamente spesso in Italia e quindi è quasi superfluo ripetere gli elogi del suo splendido, indimenticabile suono color oro antico: così lo definì Karajan tanti anni fa e così è ancora oggi, perchè l'orchestra rifiuta le tinte troppo sgargianti e l'ipervirtuosismo tecnicistico imposti dalla registrazione digitale e conserva le qualità che - piace immaginarlo - aveva cent'anni fa e che sono ideali per Strauss, che infatti le affidò la prima esecuzione di tante sue opere. A dire il vero nei primi due dei Vier Letzte Lieder, sia il direttore e l'orchestra sia il soprano Anja Harteros sembravano un po' intorpiditi, ma poi hanno pennellato meravigliosamente le infinite sfumature autunnali - come le foglie di un bosco in ottobre - degli ultimi due Lieder... anzi degli ultimi tre, perchè il ciclo proseguiva con Malven, in un'abilissima orchestrazione di Wolfgang Rihm che si mimetizzava perfettamente con quella di Strauss. Nell'Alpensinfonie Thielemann ha dato attenzione al simbolismo del percorso dell'ascesa verso la vetta più che alle minuzie descrizioni paesaggistiche: è stata un'interpretazione superba, che ha dato solidità, coerenza e afflato espressivo unitario a una partitura sterminata, che in molte altre esecuzioni si disperde in mille rivoli.

Il giorno dopo si passava dalla Mitteleuropa alla west coast con la San Francisco Symphony, una compagine eccellente, a dir poco, sebbene non venga generalmente annoverata nel Gotha delle orchestre mondiali. Ha fatto ascoltare una delle migliori esemplificazioni immaginabili delle qualità della tipica orchestra americana, sfavillante, precisa, duttile, capace di passare dal fortissimo più travolgente al pianissimo più delicato. Ascoltando la Sinfonia n. 1 di Mahler appariva evidente che Michael Tilson Thomas ama e conosce benissimo quest'autore, che dirige da una vita: si direbbe che ora sia arrivato a una visione pacificata e rasserenata della sua musica, che si è concretizzata in un'interpretazione tesa a smussare i conflitti irrisolti a favore di una lettura di chiarezza cristallina e di grande equilibrio. Prima la minuta Yuja Wang aveva dato una dimostrazione della forza delle sue piccole dita nel Concerto n. 2 di Bartok. È sembrato di capire che si sforzasse di andare oltre il puro virtuosismo, tuttavia è restata alla superficie di questa musica, cosicché i brividi notturni e il senso panico della natura del secondo movimento erano avvertibili solo grazie al direttore.

Ad essere sinceri, si arriva un po' stanchi al terzo appuntamento della giornata, quello con i concerti barocchi delle 22.30, quindi si riesce a rendersi conto della qualità del King's Consort in Purcell e Haendel, ma non a godersi pienamente il concerto. Il giorno dopo l'ensemble Il Pomo d'Oro - diretto questa volta dal giovanissimo Maxim Emelyanychev, per indisposizione di Riccardo Minasi - esegue il Catone in Utica di Leonardo Vinci in versione rigidamente integrale e il pubblico resta eroicamente in sala fino alle 2.30 (!) della notte, con poche defezioni. Esecuzione bellissima, con tre protagonisti strepitosi, Franco Fagioli, Max Emanuel Cencic e Juan Sancho, e un unico difetto: le parole erano incomprensibili, perfino nei recitativi!

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