Lo Zar Gergiev
L'integrale delle sinfonie di Prokofiev
Recensione
classica
Quella ascoltata all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia con l'Orchestra del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo diretta da Valery Gergiev era la prima integrale delle sinfonie di Sergej Prokof'ev a Roma (e anche in Italia, se ben ricordiamo). Eppure è il più importante ciclo sinfonico del ventesimo secolo, insieme a quello di Shostakovic, escludendo Mahler, che a quel secolo ha fatto appena in tempo ad affacciarsi, e anche Sibelius e Ives, che hanno smesso di comporre sinfonie intorno al 1920, quando i due russi avevano appena cominciato a scrivere le loro. Ci sarebbero anche Stravinsky, ma le sue due sinfonie sono troppo poche per essere considerate un ciclo, e Myaskovsky, le cui ventisette sinfonie impressionano per il loro numero più che per la loro importanza. Questa rapida ricapitolazione della sinfonia nel secolo scorso, che probabilmente è stato anche l'ultimo della sua storia, evidenzia che tra i principali compositori del Novecento soltanto Prokof'ev e Shostakovic si sono interessati alla sinfonia durante tutta la loro parabola artistica. Soltanto loro hanno continuato a pensare che la sinfonia fosse ancora il genere principale della musica strumentale, riallacciandosi all'esempio lontano di Beethoven e a quello geograficamente e cronologicamente più vicino di Ciajkovskij. E, per quanto riguarda Shostakovic, anche e soprattutto a Mahler.
Ma tra i due compositori russi molte erano le differenze. Shostakovich non esitava a travolgere gli argini della forma tradizionale e a riversarvi finalità e materiali eterogenei, facendone il campo di battaglia del suo serrato confronto con lo stalinismo, rischioso tanto per la "purezza" della musica quanto per la sua stessa incolumità personale. Prokof'ev invece aveva un senso della forma troppo radicato - nonostante da giovane si atteggiasse a ribelle e iconoclasta - per condividere la "deformità" e il "cattivo gusto" di Shostakovic. E aveva anche un innato distacco dalle cose del mondo, che lo teneva al riparo dal coinvolgimento nelle tragiche vicende del suo tempo. Così, quando, insieme a Shostakovic e altri compositori, fu bersagliato delle accuse di Zdanov, scelse la tattica di ignorarle, per quanto possibile, concedendo al regime il minimo indispensabile, per poi riprendere al più presto la sua rotta, come se nulla fosse, cosicché le sue sinfonie non hanno programmi dichiarati o scosti e si possono e devono ascoltare come musica pura, alla pari di quelle di Haydn e Mozart, prescindendo dalle vicende personali e politiche. Non deve essere stato un caso che Gergiev, pur non seguendo l'ordine cronologico delle sinfonie di Prokof'ev, abbia comunque voluto aprire il ciclo con la prima, la "Classica". Sempre presentata come uno scherzo, scritto per irridere chi lo accusava di non saper scrivere musica secondo le buone regole accademiche, questa sinfonia è in realtà un vero manifesto del Prokof'ev sinfonista. Se la si esegue, come ha fatto Gergiev, con una grande orchestra, con dinamiche marcate e con ritmi energici, non appare affatto un grazioso calco settecentesco (a meno che non si pensi che Prokof'ev conoscesse poco Haydn e Mozart) ma è già mossa dalla stessa irrefrenabile forza cieca che domina nelle successive sinfonie. Sono sette possenti macchine musicali che procedono sempre a pieno regime e non conoscono intoppi, sbandamenti e rallentamenti, che inchiodano alla sedia con la loro energia irrefrenabile ma non coinvolgono, perché non vogliono coinvolgere, e non sono più espressive della locomotiva di Pacific 231 di Honegger e della Fonderia di acciaio di Mosolov. Ma Prokof'ev è un musicista superiore sia allo svizzero sia al connazionale russo.La controprova è che tre concerti consecutivi interamente dedicati alle sue sinfonie non appaiono pesanti né monotoni. Più delle sinfonie più note (la prima e la quinta) hanno svettato la meno nota terza e la quasi sconosciuta quarta (mai eseguita prima d'ora nei concerti dell'Accademia di Santa Cecilia!), che traggono il loro materiale rispettivamente dall'opera L'Angelo di Fuoco e dal balletto Il Figliol Prodigo e inevitabilmente ne assorbono qualche elemento di drammaticità e risultano quindi meno impassibili.
Ad esaltare il carattere "meccanico" delle sette sinfonie di Prokof'ev ha contribuito anche l'esecuzione della magnifica orchestra del Mariinsky, la cui potenza di suono appariva soverchiante anche nell'enorme auditorium romano, al punto da far dubitare che fosse in grado di ottenere un vero pianissimo. Poiché i musicisti pietroburghesi ormai sono un tutt'uno con il loro direttore, si deve credere che queste sonorità sempre aggressive e tese, implacabili e materiche, fossero esattamente ciò che voleva Gergiev, che tuttavia nelle registrazioni con altre "sue" orchestre quali la Sinfonica di Londra e la Filarmonica di Rotterdam ci ha dato un Prokof'ev più duttile e vario. Schiacciati da tanta energia motoria, ci si abbevera avidamente ai pochi momenti di distensione che si aprono in questa musica di acciaio, che alla fine sono quelli che più restano impressi nella memoria: per esempio, la conclusione del primo movimento della terza sinfonia, la gelida melodia dell'Andante tranquillo della quarta, le ultime battute della sesta.
Ma tra i due compositori russi molte erano le differenze. Shostakovich non esitava a travolgere gli argini della forma tradizionale e a riversarvi finalità e materiali eterogenei, facendone il campo di battaglia del suo serrato confronto con lo stalinismo, rischioso tanto per la "purezza" della musica quanto per la sua stessa incolumità personale. Prokof'ev invece aveva un senso della forma troppo radicato - nonostante da giovane si atteggiasse a ribelle e iconoclasta - per condividere la "deformità" e il "cattivo gusto" di Shostakovic. E aveva anche un innato distacco dalle cose del mondo, che lo teneva al riparo dal coinvolgimento nelle tragiche vicende del suo tempo. Così, quando, insieme a Shostakovic e altri compositori, fu bersagliato delle accuse di Zdanov, scelse la tattica di ignorarle, per quanto possibile, concedendo al regime il minimo indispensabile, per poi riprendere al più presto la sua rotta, come se nulla fosse, cosicché le sue sinfonie non hanno programmi dichiarati o scosti e si possono e devono ascoltare come musica pura, alla pari di quelle di Haydn e Mozart, prescindendo dalle vicende personali e politiche. Non deve essere stato un caso che Gergiev, pur non seguendo l'ordine cronologico delle sinfonie di Prokof'ev, abbia comunque voluto aprire il ciclo con la prima, la "Classica". Sempre presentata come uno scherzo, scritto per irridere chi lo accusava di non saper scrivere musica secondo le buone regole accademiche, questa sinfonia è in realtà un vero manifesto del Prokof'ev sinfonista. Se la si esegue, come ha fatto Gergiev, con una grande orchestra, con dinamiche marcate e con ritmi energici, non appare affatto un grazioso calco settecentesco (a meno che non si pensi che Prokof'ev conoscesse poco Haydn e Mozart) ma è già mossa dalla stessa irrefrenabile forza cieca che domina nelle successive sinfonie. Sono sette possenti macchine musicali che procedono sempre a pieno regime e non conoscono intoppi, sbandamenti e rallentamenti, che inchiodano alla sedia con la loro energia irrefrenabile ma non coinvolgono, perché non vogliono coinvolgere, e non sono più espressive della locomotiva di Pacific 231 di Honegger e della Fonderia di acciaio di Mosolov. Ma Prokof'ev è un musicista superiore sia allo svizzero sia al connazionale russo.La controprova è che tre concerti consecutivi interamente dedicati alle sue sinfonie non appaiono pesanti né monotoni. Più delle sinfonie più note (la prima e la quinta) hanno svettato la meno nota terza e la quasi sconosciuta quarta (mai eseguita prima d'ora nei concerti dell'Accademia di Santa Cecilia!), che traggono il loro materiale rispettivamente dall'opera L'Angelo di Fuoco e dal balletto Il Figliol Prodigo e inevitabilmente ne assorbono qualche elemento di drammaticità e risultano quindi meno impassibili.
Ad esaltare il carattere "meccanico" delle sette sinfonie di Prokof'ev ha contribuito anche l'esecuzione della magnifica orchestra del Mariinsky, la cui potenza di suono appariva soverchiante anche nell'enorme auditorium romano, al punto da far dubitare che fosse in grado di ottenere un vero pianissimo. Poiché i musicisti pietroburghesi ormai sono un tutt'uno con il loro direttore, si deve credere che queste sonorità sempre aggressive e tese, implacabili e materiche, fossero esattamente ciò che voleva Gergiev, che tuttavia nelle registrazioni con altre "sue" orchestre quali la Sinfonica di Londra e la Filarmonica di Rotterdam ci ha dato un Prokof'ev più duttile e vario. Schiacciati da tanta energia motoria, ci si abbevera avidamente ai pochi momenti di distensione che si aprono in questa musica di acciaio, che alla fine sono quelli che più restano impressi nella memoria: per esempio, la conclusione del primo movimento della terza sinfonia, la gelida melodia dell'Andante tranquillo della quarta, le ultime battute della sesta.
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