IMS 3: L’atmosfera si riscalda

Dibattito caldo alla Sapienza

Recensione
classica
Terzo giorno di convegno. La scena si sposta nelle tre università romane, che sono partner nell’organizzazione. Scelgo per motivi affettivi (mi sono laureata proprio qui “qualche” anno fa) La Sapienza e alle 9.30 puntuali mi trovo nella sala Odeion con un’ottantina di altri ascoltatori. Sotto lo sguardo attento del chair Franco Piperno, Reinhard Strohm legge un articolato position paper dall’ eloquente titolo Musicology, Italian culture and the classical tradition; siamo ancora una volta alla questione dell’identità e ciò che Strohm vuole dimostrare è come si sia strutturata nei secoli un’italianità della musica, all’ individuazione della quale soprattutto i teorici e i musicologi, più che gli ascoltatori o gli interpreti, hanno dato un’estrema importanza. Caso analogo è quello della Germania, che ha evidenziato aspetti musicali opposti e complementari a quelli dell’Italia. Il discorso di Strohm è documentato e suadente ma la questione in realtà è spinosa e complessa, perché si intreccia più alla politica che alla musica. E infatti la risposta di Kate van Orden, docente a Berkeley, arriva puntuale a smontare tutto l’edificio appena costruito da Strohm. Che senso ha parlare di Italia in secoli come il Sei, Sette e anche primo Ottocento quando la nostra penisola era un puzzle di stati e staterelli che parlavano dialetti diversi, avevano culture diverse e spesso si combattevano tra loro? Fino a che punto musicologi come Fausto Torrefranca o Giannotto Bastianelli, che scrivono nei primi decenni del Novecento e fondano la musicologia in Italia, sono stati influenzati nelle loro valutazioni sulla musica “italiana” del passato dal desiderio forte di rintracciare a posteriori un’italianità, un senso di identità che non esisteva ancora nemmeno nel loro presente? In altri termini, l’italianità in musica è un carattere reale, rintracciabile senza possibilità di errore oppure è piuttosto un’idea (un ideale?) da dimostrare un po’ forzatamente, soprattutto per opporsi al modello dominante che in quegli anni era proprio quello tedesco? L’atmosfera si è fatta calda e Piperno invita al coffee break; io e la maggior parte in sala siamo molto soddisfatti di questo contraddittorio che ha dato energia e un po’ di pepe alla giornata. Dedico il pomeriggio ad una delle visite in programma e vado con un gruppetto di convegnisti al Teatro dell’Opera, il glorioso Costanzi; ci guida il responsabile dell’Archivio Storico e Audiovisuale, Francesco Reggiani. Scopro che Domenico Costanzi, il leggendario fondatore del teatro, era in realtà un uomo d’affari che aveva pensato di costruire un nuovo spettacolare teatro da vendere al Comune di Roma, in occasione dell’abbattimento dell’antico Teatro Apollo, troppo vicino alle rive del Tevere. Quando il Comune – si era nel 1880 - gli disse che era a corto di soldi e che il nuovo teatro poteva anche tenerselo, Costanzi dovette trasformarsi in tutta fretta da businessman a impresario teatrale, con tutte le difficoltà del caso. Da una speculazione sbagliata nacque però una grande opportunità: alleandosi con l’editore Sonzogno, storico rivale del milanese Ricordi legato alla Scala, e fondando un concorso per nuove opere, Costanzi seppe attirare nel suo teatro i nuovi talenti della Giovane Scuola e dal 1890, con la prima di Cavalleria rusticana il teatro intraprende una carriera in ascesa che lo porta ad essere uno dei luoghi cult della musica del Novecento in Italia. Il Teatro dell’Opera oggi ha l’orgoglio di essere uno dei pochi teatri ad avere un Archivio Storico aperto al pubblico tutti i giorni. Se non avete tempo di andarvi fisicamente, fate almeno un salto nel ricchissimo sito web…

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