Da numerose stagioni l'alsaziana Opéra national di Rhin sotto la guida di Marc Clémeur coltiva il gusto del ripescaggio di opere del repertorio francese, un tempo ammirate, sulle quali si è deposta la polvere del tempo. Alla galleria di lavori di Meyerbeer, Arthus, Dukas, in questa stagione si aggiungerà Fauré, celebrato soprattutto per le mélodies e la musica da camera. Perché non ci sia sentore di riesumazioni museali, Clémeur ha scelto il regista Olivier Py come partner artistico. Provocatore intelligente, il cinquantenne Py frequenta da tempo l'opera nonostante un solido background di attore, drammaturgo e regista di teatro di prosa o "di parola", come lui preferisce dire, che l'ha portato alla guida artistica del Festival di Avignone dal 2014 dopo la direzione dell'Odéon. Abbiamo raggiunto Py a Strasburgo durante una pausa delle prove della Pénélope che debutterà il prossimo 23 settembre con protagonista Anna Caterina Antonacci. Sguardo acuto e mai banale, come nei suoi spettacoli Py è capace di sorprendere l'interlocutore con scarti improvvisi e prospettive inedite su alcuni dei pilastri del teatro musicale europeo.
A Strasburgo, in questi giorni lei sta lavorando alla Pénélope di Gabriel Fauré dopo aver allestito nella scorsa primavera l'Ariane et Barbe-Bleue di Paul Dukas. Come è nata l'idea di metterle in scena?
«Io stesso avevo proposto l'Ariane a Marc Clémeur e lui mi aveva risposto: "Vorrei che tu facessi Pénélope". Non conoscevo l'opera di Fauré ma l'ho scoperta su sua sollecitazione e ne sono rimasto affascinato.»
Per queste due opere lei ha usato il termine "dittico": ci sono degli aspetti comuni fra questi due lavori?
«Le due opere hanno molti elementi in comune. Sono state composte nella stessa epoca: Ariane è del 1907, mentre Pénélope debutta nel 1913, ma Fauré ha cominciato a comporla nel 1907. Entrambe appartengono più alla fine del XIX secolo che al XX secolo. Sono entrambe opere poco note, al pubblico francese in particolare. Ariane lo è un po' di più ma Pénélope per niente, non essendo mai stata rappresentata da molti anni. Si tratta di una grande ingiustizia perché siamo di fronte a due autentici capolavori, a mio avviso. Inoltre, sono due storie di donne, due meditazioni su storie di donne. Donne in attesa. Da un punto di vista musicologico, si vedono due modi distinti di concepire il "suono dell'avvenire", facendo i conti con il wagnerismo dopo Debussy.»
In che misura questi due compositori hanno un debito nei confronti di Wagner?
«In entrambi si sente forte l'esperienza di Wagner ma anche di Debussy. In Dukas le influenze wagneriane si colgono soprattutto sull'orchestrazione, mentre in Fauré si ritrova piuttosto l'idea dei leitmotif e della melodia infinita. Entrambe le opere hanno subito lo shock wagneriano ma entrambe hanno cercato di inventare un modo francese di essere wagneriane. Pénélope è comunque un'opera molto francese nel senso della prossimità fra musica e testo, della prosodia, del "dire". È costruita come una specie di lungo recitativo, non molto diversa in questo dal Pelléas.»
La chiave visiva che lei ha scelto per la Pénélope rimanderà a quella di Ariane?
«Direi di no. Le due scenografie sono molto diverse. Quella di Pénélope sarà completamente sull'acqua e molto "lacustre". Ci sarà una specie di palazzo mezzo distrutto che ruota costantemente su un grande disco d'acqua. La scena è molto meno materiale di quella di Ariane, che era un mondo di cemento, di rovine, di sotterranei. Pénélope sarà molto più aerea. E comunque molto diversa.»
A proposito di Pénélope, lei ha detto che "Fauré non voleva la Grecia antica ma l'astrazione; un'opera che si svolge "sempre", in qualche luogo e ovunque": cosa voleva dire?
«Fauré voleva un soggetto mitologico ma non intendeva ricostituire nulla di preciso. Gli interessava la sua epoca, parlare del suo tempo, della società nella quale viveva. Ma, al contrario, non voleva un soggetto triviale o quotidiano o contemporaneo. Da cui l'astrazione: Penelope e Ulisse vivono in un mondo astratto che è il mondo del teatro.»
... mentre l'Europa si preparava al bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale ...
«... che è sì molto vicina ma anche molto assente in questo lavoro (e nel mio spettacolo). Quello che colpisce è la cecità politica e storica di tutta una classe sociale. È la stessa cecità (o accecamento) di Freud, la stessa di Maeterlinck e più in generale di tutti i simbolisti. Non vedevano avvicinarsi la catastrofe. Sono sempre in un post-post-post-post-romaticismo, che si chiama simbolismo, e non vedono che il Titanic affonda, che la rivoluzione del 1917 sta provocando una frattura nel mondo e che la tragedia del 1914 chiuderà il XIX secolo. Non vedono tutto questo. È una società inerte, anche inutile, che si occupa interamente di questioni interiori. E grazie a questo scopre la potenza dell'inconscio.»
Come vede gli allestimenti che cercano di attualizzare comunque l'opera che viene rappresentata?
«Dipende dall'opera. Mi è capitato di allestire opere in chiave contemporanea, per esempio la Carmen che ho fatto a Lione, mentre in altri casi trovo che questa chiave non vada d'accordo con lo stile proprio dell'opera. Credo che Traviata si possa rappresentare in chiave contemporanea perché si tratta di un'opera che si svolgeva nella contemporaneità o comunque realistica. Non è possibile con Pénélope che non è né realistica né quotidiana né triviale. Siamo in un mondo che non esiste, in un sogno. È un'opera onirica. In generale non traspongo in un'epoca o in un'altra. Compongo con oggetti teatrali, con elementi teatrali che appartengono a tutte le epoche. In Pénélope alcuni personaggi evocano l'Odissea, c'è anche un'Atena con l'elmo, ma altri personaggi rievocano piuttosto l'epoca della composizione, e ci sono anche delle donne in nero che potrebbero appartenere all'epoca di Fauré e degli uomini in abiti contemporanei.» Più in generale come affronta una nuovo spettacolo d'opera? Comincia dalla musica? Si confronta con versioni del passato? «Anche qui dipende dall'opera. Con Pénélope ci sono pochissimi riferimenti: non ci sono pervenuti allestimenti, ci sono pochissime immagini, anche le registrazioni sono scarsissime. In questo senso, si tratta di una vera e propria creazione, come fosse un'opera contemporanea. Con Carmen, per esempio, la situazione è molto diversa: conosco l'opera a memoria ancor prima di cominciare a lavorarci! Si ha un'eredità iconografica molto pesante e si tratta dunque di cercare di dare un'altra immagine. In generale, comunque, lavoro sempre sulla partitura e sul testo. La musica è sempre una grande fonte di ispirazione per me e per Pierre André Weitz, lo scenografo e costumista».
Weitz è da sempre la sua "identità visiva": come funziona la vostra collaborazione?
«Con Pierre André lavoriamo insieme da 25 anni. Più che una collaborazione, si tratta piuttosto di un lavoro a quattro mani. Riprendiamo spesso idee utilizzate in vecchi spettacoli che abbiamo voglia di ritrovare. Talvolta io propongo un'idea per la scena, e lo stesso fa lui con idee di regia. Fra di noi, non esiste una separazione netta fra i ruoli di regista e di scenografo. Insieme abbiamo creato un "teatro", il nostro, che si modifica (almeno lo spero!) e si reinventa ad ogni nuova occasione. È la nostra cifra. Quando il pubblico vede un nostro spettacolo, coglie una continuità. Questa Pénélope sarà il nostro 27° spettacolo d'opera e quasi altrettanti ne abbiamo fatti insieme nel teatro di parola: è chiaro che si tratta di un teatro in sé.»
Torniamo a Pénélope per parlare di cantanti. Quest'opera vanta una tradizione di grandi interpreti: la "creatrice" Lucienne Breval, fra l'altro l'ispiratrice del lavoro a Fauré, e più tardi Germaine Lubin negli anni 1940, Régine Crespin negli anni 1960, Jessye Norman nel 1980 e infine Anna Caterina Antonacci, con cui lei sta lavorando a Strasburgo. Cosa ci dice della sua protagonista?
«È la prima volta che lavoro con Anna Caterina, di cui sono un grande fan da quando l'ho vista per la prima volta come Cassandre nei Troyens. Sono molto felice che sia lei a interpretare Pénélope nel mio spettacolo. È positivo il fatto che lei abbia già interpretato questo ruolo in una versione concertante al Théâtre de Champs-Elysées in occasione del centenario dell'opera. Quando abbiamo iniziato le prove, Anna Caterina conosceva l'opera meglio di tutti noi ed è stata la prima a parlare di capolavoro. È lei che credeva più di tutti in questo progetto e che, come una specie di "capocomico", ci incitava quando eravamo abbastanza delusi prima di iniziare il lavoro con l'orchestra. La versione per canto e piano non rende la ricchezza di colori orchestrali, com'è spesso il caso per le opere francesi del periodo. Lei è assolutamente magnifica.»
Voltiamo pagina e parliamo di Verdi: ad aprile lei allestirà un nuovo Macbeth a Basilea e si rivedranno i suoi Trovatore a Monaco di Baviera in marzo e Aida all'Opéra di Parigi in giugno. Da dove nasce questa sua dedizione a Verdi?
«Credo che anche con Verdi sia necessario fare lo stesso lavoro che si è fatto con Wagner. Mi spiego: Wagner è stato oggetto di una rilettura profonda, di allestimenti molto innovatori, un lavoro che non si è fatto per Verdi, generando il falso convincimento che Verdi sia meno profondo di Wagner. Ma questo non è vero o almeno io non l'ho mai pensato: sono entrambi geniali in pari misura. Del resto non sono così lontani fra di loro (non credo per niente alla questione dell'anima tedesca e di quella italiana, pur riconoscendo alcune specificità nazionali). Verdi merita delle riletture critiche, delle messe in scena ermeneutiche, profonde, delle messe in scena che "decostruiscano" per arrivare a capire oggi il suo genio, il suo genio politico, tutto ciò che oggi si riconosce a Wagner. Non c'è niente di più stupido che pensare che Wagner sia profondo, mentre Verdi è divertente e volgare. Da sempre sostegno l'intelligenza dei libretti verdiani, nonostante abbia cominciato con dei Verdi "difficili" come La forza del destino e Il trovatore. Si dice spesso che siano dei libretti poco interessanti, ma io li trovo straordinari. Nella sua opera profondità filosofica e pensiero politico sono presenti in pari misura che in Wagner. Tuttavia Verdi non ha ancora raggiunto il livello di considerazione che merita sulle scene contemporanee. Bisogna "lavorare" Verdi: bisogna mostrare a che punto è visionario, intelligente, quanto fosse politicamente sempre dalla parte giusta.»
Per tornare al Macbeth: ha già cominciato a rifletterci?
«Certo. Per me quello del Macbeth è lo Shakespeare più oscuro, il più malefico che mi appassiona. L'idea, di Shakespeare, che il potere sia la follia. È interessante che Verdi volesse lavorare che su Shakespeare ed è un vero peccato che non sia riuscito a fare il Lear come voleva. Io credo che sia necessario capire Verdi attraverso Shakespeare, cioè bisogna passare per Shakespeare per capirlo. Quel che è strano nel Macbeth di Verdi è che la musica è talvolta un po' leggera rispetto all'immagine che abbiamo del Macbeth di Shakespeare. Credo sia una sorta di contrappeso alla violenza del dramma. Spero comunque di poter continuare a lavorare su Verdi anche dopo quest'opera.»
Prima di Verdi, lei sarà a Vienna per un Olandese volante di Wagner, altro autore che lei ha affrontato in diverse occasioni ...
«L'Olandese volante che farò a Vienna sarà il mio terzo Wagner dopo Tannhäuser e Tristan e farò Lohengrin fra due anni. Ho l'impressione di poter continuare a scavare, che è un pensiero che si completa con gli altri Wagner. Ed è lo stesso per Verdi: ho l'impressione di un lavoro che continua. Verdi per me è molto più vicino al mondo della guerra. È strano: i francesi pensano sempre che, a causa di quel che è successo nel XX secolo, Wagner sia legato alla guerra. In effetti, Wagner è spesso molto più femminile, delicato, sensuale di Verdi, che invece è un compositore di straordinaria virilità. La sua musica è virile, fallica.»
È vero, come appare spessissimo dai programmi dei teatri lirici, che solo un regista francese possa realizzare un'opera francese, o un tedesco un'opera tedesca o un italiano una italiana e via dicendo?
«Per quanto mi riguarda, io lavoro molto sul testo. Da francese, mi si riconosce un'autorità speciale sulle opere del repertorio francese, specialmente all'estero. Poiché il mio tedesco non è perfetto ho bisogno la lavorarci di più. Lo stesso vale per l'italiano che non parlo per niente bene ma voglio comunque lavorare sul repertorio italiano, che è meno lontano dalla mia cultura. Con queste lingue ho sempre qualcuno che mi aiuta nel lavoro. Avrei davvero dei grossi problemi a fare un Janácek o un autore russo o ungherese. Per me il lavoro sulla lingua è fondamentale.»
Ma il suo lavoro dimostra che queste barriere non esistono ...
«Certamente non credo di più all'anima francese che, per dire, a quella italiana. Semmai possiamo parlare di anima europea o magari di genio europeo. Io parlo piuttosto al lavoro sulla lingua che è particolare e appassionante.»
Per tornare al dittico strasburghese, è possibile che si trasformi presto in un trittico?
«No, per il momento non è in programma una terza opera, anche se non è escluso che torni con altri progetti all'Opéra di Strasburgo, che è un teatro che adoro. Mi piacerebbe fare l'Oedipe di Enescu, un'opera francese poco nota e ancora di soggetto mitologico. Ma è un progetto del tutto teorico ma chissà che non si avveri prima o poi.»