Gli schermi del jazz all'italiana

Un seminario alla Fondazione Cini sui compositori italiani e il cinema dal 1945 al 1975

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Splendido seminario quello organizzato da Gianmario Borio e Roberto Calabretto alla Fondazione Cini di Venezia, dedicato al rapporto tra i compositori italiani e il cinema tra il 1945 e il 1975. Un'occasione per confrontarsi su un tema molto vasto e capace di stimolare prospettive differenti, che è stata seguita e animata da musicologi e ricercatori di varia estrazione.

Particolare interesse ha destato la sessione conclusiva, dedicata al rapporto tra il cinema e il "jazz all'italiana", affidato alle quattro mani di Veniero Rizzardi e Leo Izzo, che hanno subito ammesso come i confini temporali del seminario siano stati particolarmente utili, dal momento che la presenza del jazz nel cinema italiano si stabilizza attorno alla metà degli anni Sessanta per poi moltiplicarsi (complice anche il lavoro di compositori come Piccioni, Trovajoli, Umiliani...) negli anni successivi in dimensioni tali da rendere ardua una catalogazione precisa.

Pur focalizzandosi sulla cinematografia a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Rizzardi e Izzo hanno voluto fornire comunque qualche precedente interessante, come il corto Ritmi di stazione di Corrado D'Errico (siamo nel 1933), debitore certo di suggestioni tedesche (Ruttmann) e futuriste, ma interessante per il montaggio a collage di fonti fonografiche che comprendono il Gershwin di Un americano a Parigi a Duke Ellington, passando per l'Honegger "ferroviario" di Pacific 231.



Nell'entrare nel merito della questione, i due autori hanno giustamente precisato che dal punto di vista metodologico (questione piuttosto scivolosa, si sa) hanno voluto considerare "jazz" quello che veniva considerato tale all'epoca dell'uscita del film.

Ecco quindi alcuni esempi di musica jazz associata alla presenza di neri americani in alcuni film neorealisti (splendida la scena di Vivere in pace di Zampa in cui il soldato nero tenuto nascosto esce a ballare con il tedesco ubriaco o quella di Riso amaro in cui Gassman si "nasconde" nel ballo con grammofono della mondina Mangano) in funzione di "autenticità" o associata alle tensioni giovanili e intergenerazionali nella società del dopoguerra, sia in chiave di ribellione maschile che di corruzione dei costumi femminili (la vamp, poi stemperata nella meno minacciosa soubrette).



Ma anche, man mano che si procede negli anni, un marcato addomesticamento di questi caratteri, con l'adozione di una sorta di cool all'italiana e l'alleggerimento del jazz (anche attraverso l'uso di ritmi afrocubani) in concomitanza con una borghesia che si consolida.

Antonioni - grande appassionato di jazz e possessore di una corposa collezione discografica sull'argomento, come ha ricordato Roberto Calabretto - è una figura centrale in questo contesto. Ne vediamo spezzoni da un primo cortometraggio del 1948, N.U. Nettezza Urbana, con il jazz che contrappunta la pausa pranzo dei netturbini.



Ma anche spezzoni da Cronaca di un amore e dal più classico La notte, con la colonna sonora affidata a Giorgo Gaslini e al suo gruppo, spesso in scena.



Izzo ha poi tracciato un interessante e dettagliato percorso nel poco conosciuto lavoro di Bruno Maderna per il cinema tra la fine degli anni quaranta e l'inizio del decennio successivo, in una sorta di disagio tra la costruzione di una carriera seria nell'ambito della scena colta e le necessità "alimentari" di alcune commissioni come autore di colonne sonore. Solo molti anni dopo, con le musiche per La morte ha fatto l'uovo di Giulio Questi, Maderna troverà forse una quadratura a questo cerchio.



Ma ancora il jazz de La vita agra di Lizzani/Bianciardi, con un Tognazzi irresistibile mentre il gruppo di Enrico Intra suona (in realtà in un altro luogo, ma si sa..)



L'approdo del jazz a materia plasmabile nelle mani di compositori come Umiliani, Piccioni, Trovajoli, rappresenta in un certo senso un approdo a una sua codificazione come elemento che non necessariamente connota, come qualche anno prima (ma acutamente è stato notato che la cosiddetta commedia all'italiana ha temi di grande inquietudine e amarezza), ma che viene usato con grande flessibilità e maestria dalla fantasia degli autori.

Un lavoro importante, quello di Izzo e Rizzardi, che merita di venire arricchito e continuato (magari con l'ausilio di un blog, strumento che Izzo già utilizza in modo esemplare ai fini didattici), che merita di incrociarsi con le analisi degli studiosi di cinema e di quelli di jazz.

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