Una vita per il teatro

L'ultima stagione di Klaus Peter Kehr da dieci anni alla guida del Nationaltheater di Mannheim

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classica


Klaus Peter Kehr non ama apparire ma per quasi mezzo secolo è stato instancabile animatore della scena operistica tedesca, prima da consulente per la drammaturgia a Colonia e in varie altri teatri, poi alla testa di importanti istituzioni come le Wiener Festwochen dal 1991 al 2002 e il Festival di Schwetzingen dal 1994 al 2008, diventando infine direttore nel 2005 e sovrintendente dal 2012 dell'opera al Nationaltheater di Mannheim. Prima ancora che professione, il teatro musicale è una vera passione per quest'uomo, che a 75 anni ha preservato intatti l'interesse e la curiosità per un genere che ha contribuito a mantenere attuale commissionando un elevato numero di lavori. «Kehr è una persona geniale, sensibile, complessa, con una vastissima esperienza europea e con un grande e profondo rispetto per il lavoro del compositore» ci ha detto di lui Lucia Ronchetti, la cui ultima opera "Esame di Mezzanotte" è nata sotto i suoi auspici. «Con Kehr ho avuto l'occasione di realizzare due progetti - l'opera da camera per un pubblico giovane "Neumond" nel 2012 e "Esame di mezzanotte" in collaborazione con Achim Freyer lo scorso maggio. Il dialogo sviluppato con lui, la sua visione a 360° delle problematiche drammaturgiche legate a queste opere, la sua capacità di intuire quali collaborazioni possano avere un esito artistico interessante e la sua cura e passione per ogni progetto in cui crede, rappresentano nell'insieme la mia più importante esperienza nel mondo magico del teatro musicale». Più che i numeri, comunque considerevoli (la scorsa stagione circa 177 mila spettatori hanno assistito alle 276 aperture di sipario d'opera), la sua gestione, che si conclude con questa stagione, si ricorderà per il prestigio acquisito e culminato con il titolo di teatro d'opera dell'anno (condiviso con Francoforte) della rivista "Opernwelt" per la scorsa stagione. Se comunque non mancano le voci critiche che gli rimproverano di aver ignorato il territorio puntando troppo alto ed esser venuto meno alla tradizione wagneriana e straussiana del teatro, Kehr continua per la sua strada aprendo la stagione con l'Henze dei "Bassarids" seguito da Rossini, Halévy e Prokof'ev e proponendo anche in questa stagione una prima mondiale: "Il Golem" di Bernhard Lang. Nonostante manchino pochi mesi alla fine del mandato, la sua attività in teatro è ancora frenetica, ma qualche decina di minuti per parlare della sua lunga esperienza di uomo di teatro è riuscito a dedicarceli, con la perplessità di chi il teatro ama farlo più che parlarne.

Professor Kehr, questo è il suo decimo e ultimo anno alla guida dell'Opera di Mannheim. Guardando a questo lungo periodo, a suo avviso quali sono stati gli aspetti più qualificanti?

«In realtà la situazione è stata più complessa perché durante i miei primi sette anni qui a Mannheim ero direttore dell'opera e quindi tutte le mie decisioni dovevano essere approvate dal sovrintendente. In questo senso non ero completamente libero, ma sono riuscito a realizzare comunque molti dei miei progetti. Tre anni fa è stato deciso un cambio nell'organizzazione del teatro e solo allora sono diventato sovrintendente dell'opera, acquisendo piena autonomia nelle decisioni. Resto profondamente convinto che se in un teatro d'opera non si fa musica contemporanea si viene meno al proprio scopo. Per esempio un cantante, quando lascia il proprio insegnante per entrare in teatro, deve cominciare a capire chi è, definire la propria personalità di interprete; prendere parte alla creazione di una nuova opera offre un'opportunità straordinaria. Quando si lavora in un teatro con un grande ensemble come qui a Mannheim occorre prendersi di cura anche di questo, occorre offrire ai cantanti opportunità di sviluppo. Di sicuro abbiamo migliorato molto questo aspetto nel corso dei miei anni a Mannheim. In ognuna delle ultime cinque stagioni abbiamo avuto una prima mondiale: il primo anno abbiamo coinvolto quasi esclusivamente specialisti, mentre nelle opere successive il numero di cantanti del nostro ensemble è aumentato via via fino a ricoprire quasi tutti i ruoli. Se si interpretano solo pezzi noti ai cantanti e al pubblico, allora tutto diventa molto noioso. Occorre stimolare la curiosità. Se il pubblico è piatto, anche il teatro è piatto.»

E la risposta del pubblico è stata come Lei se l'aspettava?

«Credo che anche su questo piano abbiamo fatto dei progressi. All'inizio ho notato una certa ostilità nei miei confronti incoraggiata dalla stampa locale. Quando sono stato nominato sovrintendente, un giornale ha scritto: "Un giorno nero per Mannheim." Niente male come inizio! E poi è stata una lotta contro tutti: l'orchestra, il coro, parte dei cantanti, alcuni politici ... Sono abbastanza vecchio da dare a queste cose il giusto peso. E non ho mai lavorato per cercare di accontentare qualcuno. Anche nei miei anni alle Wiener Festwochen ho dovuto fare i conti con un'ostilità iniziale ma alla fine il mio lavoro è stato apprezzato. Occorre essere forti e seguire le proprie convinzioni.»

C'è qualche progetto realizzato qui a Mannheim di cui va particolarmente fiero?

«I miei gusti in materia di musica contemporanea sono molto vari. Un aspetto fondamentale è che il compositore sappia scrivere per la voce, che possa inventare un nuovo linguaggio per la voce. E ovviamente sia in grado di comporre musica "teatrale". Nella mia lunga carriera ho commissionato 38 nuovi lavori di teatro musicale a Philip Glass, Steve Reich, Salvatore Sciarrino e più di recente a Adriana Hölszky, Lucia Ronchetti e Bernhard Lang, per citarne solo alcuni. Posso dire di essere fiero di quasi tutti questi 38 lavori.»

Non Le chiederò allora se il quasi esclude "The Outcast" di Olga Neuwirth, con la quale ci sono state tensioni finite anche nella stampa ...

«Diciamo che non considero "The Outcast" il suo lavoro migliore.»

Nel descriverLa, Lucia Ronchetti insiste soprattutto su tre elementi: il profondo rispetto per il lavoro del compositore, la Sua capacità di stabilire un dialogo con il compositore e la Sua intuizione per ciò che è artisticamente rilevante nel lavoro del compositore. Si riconosce?

«È una descrizione molto positiva: non posso che essere d'accordo! (ride) Aggiungerei un elemento molto importante. Mannheim è un grande teatro. Quando si monta un nuovo lavoro, non è sempre facile far fare a tutte le parti in gioco ciò che si vuole. Ebbene, con l'orchestra e il coro non ci sono mai state tensioni. Anche se non amavano troppo la musica, hanno sempre dimostrato rispetto e hanno cercato di dare il massimo. Il fatto che "Opernwelt" abbia tributato a questo teatro la migliore novità dell'anno per tre anni consecutivi (per "L'idiota" di Weiberg nel 2013, "Böse Geister" di Hölszky nel 2014 e "Esame di Mezzanotte" di Ronchetti nel 2015) è chiaramente il risultato di una partecipazione collettiva di tutte le forze del teatro alla realizzazione di un progetto. Non è questione di amarlo o di crederci, ma di partecipare con impegno alla sua realizzazione.»

Mettiamo da parte le novità. A mio avviso il "Ring des Nibelungen" di Achim Freyer (che tornerà anche in questa stagione) è stato uno dei risultati artisticamente più significativi durante la Sua gestione.

«E per di più è nato quasi per caso. Il progetto di un nuovo "Ring" a Mannheim prevedeva inizialmente un altro regista e un altro scenografo. Già dopo le prime discussioni con il regista e dopo aver visto i bozzetti ho preso la difficile decisione di chiudere con loro per non trovarmi poi a brancolare nel buio per i due anni successivi. Per la prima volta nella mia carriera ho licenziato qualcuno e per di più senza avere dei sostituti. A quel punto ho cominciato a parlarne con Achim Freyer, che inizialmente non era convinto di voler tornare su un lavoro che aveva già allestito pochi anni prima per la Los Angeles Opera. Nonostante le perplessità, Achim si è lanciato nel progetto, sviluppando il concetto durante le prove. È stato un grande stress per lui e per il teatro per le continue modifiche alla scena e ai costumi. Il "Rheingold" è stato davvero duro, ma via via che il progetto si è definito tutto è diventato più semplice e alla fine questo "Ring" ha funzionato perfettamente. Credo davvero che sia stato uno dei migliori "Ring" visti nel bicentenario wagneriano. Anche le vendite del DVD stanno andando molto bene: è stata venduta oltre la metà delle copie pubblicate.»

Con Achim Freyer Lei vanta una lunghissima collaborazione che risale agli anni '70. Com'è iniziato il vostro sodalizio?

«Effettivamente è strano che un'amicizia duri per così tanto tempo nel nostro ambiente. È un'amicizia che si è cementata grazie all'ottimo lavoro che abbiamo fatto insieme a Stoccarda negli anni '80, soprattutto la trilogia di Philip Glass ("Satyagraha" nel 1981, "Echnaton" nel 1984 e "Einstein on the Beach" nel 1988) e il "Freischütz", che nel 1980 fu uno scandalo ma che ancora è nel repertorio del teatro dopo 260 recite. Con Achim ci siamo conosciuti a Colonia, dove all'epoca ero capo della drammaturgia. Lui era cittadino della DDR e, in occasione di una tournée a Milano con "L'anima buona di Sezuan " di Brecht, Achim aveva deciso di non rientrare nel suo paese. Seguì un periodo difficile con la sua famiglia ancora a Berlino Est e lui in semi-clandestinità alla ricerca di lavori come scenografo (avrebbe cominciato solo più tardi a lavorare come regista). Avevo visto il "Barbiere di Siviglia" alla Staatstoper a Berlino Est con le sue scene e la regia di Ruth Berghaus e lo proposi a Colonia per una produzione di "Cardillac" per la quale ancora mancava uno scenografo. Seguirono il "Pelléas", "Wozzeck" e tutti i numerosi altri progetti che abbiamo realizzato insieme. E così è cominciata la nostra amicizia.»

Come ha appena ricordato Lei ha iniziato la Sua carriera come "drammaturgo", imponendosi negli anni come uno dei più prestigiosi in Germania. Fra l'altro Lei è anche stato professore di Drammaturgia alla Folkwang Hochschule di Essen fra il 1997 e il 2005. Quella del drammaturgo è una figura professionale chiave nei paesi legati alla tradizione teatrale tedesca. Può spiegare che ruolo svolge nella produzione di uno spettacolo d'opera?

«È vero: è un ruolo strano e una tradizione molto tedesca. Posso comunque solo raccontare come io l'ho svolto: dovevo elaborare un "concetto" per la nuova produzione e quindi seguire l'intero processo dallo sviluppo dell'immagine (scene e costumi), alle prove fino alla prima dello spettacolo. Ero cioè un "partner" con cui discutere di ogni aspetto in fase di produzione. È un lavoro entusiasmante, perché si sta con una gamba nella teoria e con l'altra nella pratica della scena. Se si trascura la dimensione pratica, non è possibile fare questo lavoro. Non si può vivere nel mondo alto e perfetto delle Idee. Anche quando più tardi ho assunto ruoli dirigenziali, ho mantenuto l'interesse per partecipare al lavoro sulla scena. Rispetto a molti altri colleghi, continuo a essere molto presente durante le prove. Però non ho mai obbligato nessun regista a pensarla come me, ma certamente non ho mai lesinato consigli o rifiutato di esprimere il mio punto di vista. Gli artisti devono essere liberi.»

Si rimprovera qualcosa nel lavoro fatto a Mannheim negli ultimi 10 anni?

«Molte cose. Per esempio una "Forza del destino" nel 2005 sfuggita di mano: sarei dovuto intervenire ma non lo feci. Talvolta alcune decisioni sono il risultato di situazioni obbligate. Oggi forse non accetterei più certe pressioni che sono inevitabili in situazioni di caos. È importante mantenere la propria visione del lavoro e agire di conseguenza senza cedere alle pressioni.»

E fra i compositori con i quali ha lavorato? Ce n'è qualcuno con cui non vorrebbe ripete l'esperienza?

«No, direi di no. Ripeterei persino l'esperienza con Steve Reich cui ho commissionato per le Wiener Festwochen "The Cave" nel 1994 e "Three Tales" nel 2002: nonostante la sua musica si ritenesse lontanissima dall'idea di teatro, anche in quell'occasione ho imparato delle cose sul teatro alle quali non avevo mai pensato. Mi piace molto quando mi capita di essere obbligato a pensare al teatro in modo diverso. È un arricchimento.»

E dopo Mannheim? Si ritirerà a vita privata?

«Ho diverse proposte che sto ancora valutando. Di sicuro non tornerò a dirigere un teatro.»

C'è un segreto per diventare il teatro d'opera dell'anno?

«No, non c'è nessun segreto. Ho cercato di fare il mio lavoro al meglio e questo è tutto.»

Intanto la sua avventura a Mannheim si concluderà con la Mannheimer Mozartsommer.

«La nuova produzione di "Idomeneo" con la regia di Ingo Kerkhof e la direzione di Dan Ettinger è già stata annunciata ma stiamo completando al programma in queste settimane. E, lo si creda o no, il mio ultimo titolo a Mannheim sarà "Götterdämmerung": si può immaginare una drammaturgia più efficace per un'uscita di scena?»

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