Young Signorino? No, Playboi Carti

Il rap post verbale del ventunenne Playboi Carti: Die Lit si candida a essere la new sensation della scena rap statunitense

Young Signorino? No, Playboi Carti
Disco
pop
Playboi Carti
Die Lit
AWGE/interscope
2018

No, non è un mio refuso e non è neanche una disattenzione di chi cura l’editing: si scrive proprio così, Playboi, con la “i” al posto della “y”.

Impostosi prepotentemente all’attenzione del pubblico lo scorso anno con il mixtape Playboi Carti, contenente, tra gli altri, i brani “Magnolia”, due volte disco di platino, e “Woke Up Like This”, un duetto con Lil Uzi Vert, Jordan Terrell Carter è originario di Atlanta e ha cominciato la sua carriera nel 2015 con un paio di brani comparsi su Soundcloud. Parallelamente alla carriera musicale porta avanti quella di modello: la rivista GQ lo descrive come «il leader dello stile giovane, il punto d’incontro tra lo stile patinato di A$AP Mob, l’attitudine punk-rock di Lil Uzi Vert e la teatralità giocosa di Yacthy».

Nel sottotitolo di quest’articolo si parla di “rap post-verbale”, quello che negli Stati Uniti definiscono “mumble rap”: quello di Playboi Carti è un rap spogliato del contenuto delle parole, più interessato al flow e alle frasi a effetto che a possibili messaggi, più orientato all’atmosfera che al senso logico delle parole; il New York Times arriva al punto di affermare che «Playboi Carti sembra più a suo agio nell’interpretazione del ruolo che nell’atto vero e proprio di rappare».

Non vado oltre, anche perché sembra che io stia descrivendo la versione statunitense di Young Signorino, e non è proprio così.

Die Lit (“L’Illuminato” in tedesco) è senz’altro un album provocatorio e divisivo, coi suoi estimatori e i suoi detrattori: “Yeah, I'ma go fuck that bitch / I’ma go thrash that bitch / Shawty gon' suck this dick / Shawty gon' suck this dick”, e alcuni saranno catturati dal tappeto sonoro approntato dal produttore Pi’erre Bourne, altri saranno infastiditi dall’innegabile misoginia delle parole. È un album che mi piace ma mi sembra quasi di dovermi scusare perché mi piace, come se fosse un guilty pleasure... In realtà vale la pena ascoltare questi cinquantasette minuti (ecco, la prima pecca: avrei preferito un disco più corto, intorno ai quaranta minuti, ma più compatto; la seconda è l’assenza di un singolo trascinante come “Magnolia”, uno di quelli che, quando lo senti alla radio, alzi il volume a “livello coatto”) e apprezzare il lavoro del già citato Pi’erre Bourne, le sue basi che sembrano arrivare dalle prime console Game Boy, le sue tastiere calde e volutamente non bilanciate, i suoi bassi ronzanti, le comparsate di Nicki Minaj, Young Thug, Bryson Tiller e Skepta,e il rap effervescente, torbido e adenoidale di Playboi Carti. È qualcosa di innovativo e di fantasioso: bisogna ascoltarlo adesso, magari tra meno di un anno sarà già diverso o addirittura scomparso.

 

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