Yard Act: post punk e humour nero
Il quartetto di Leeds Yard Act fa il botto al debutto con The Overload
Sospinto dal vento in poppa, ecco farsi avanti gli Yard Act, un quartetto quotatissimo oltremanica, distribuito ora dall’autorevole Island Records, sulla scia di un poker di singoli autoprodotti: pregevolissimo “Fixer Upper”, nell’estate 2020, tanto da riscuotere persino l’elogio di Sir Elton John (cortesia ricambiata dalla band, che ne riprende adesso dal vivo “Tiny Dancer”).
Cosa prevede il menu? Accettando la suggestione del luogo di provenienza, Leeds, potremmo dire a bruciapelo: Gang Of Four. Se badiamo viceversa ai modi del cantante James Smith, è automatica l’analogia con il suo omonimo Mark Edward, compianto leader dei Fall, evidente fin dall’episodio che introduce il disco e gli dà nome, aperto da queste parole: “Sto scuotendo la mia palla magica cercando di vedere cos’ha in serbo per me la giornata di domani”.
Siamo in zona post punk, insomma: canovaccio ammantato nella circostanza da un velo di humour nero. Il brano successivo, “Dead Horse”, affronta il dopo Brexit a rasoiate, descrivendo “un paese squinternato, pieno di stronzi” e “la nuova acconciatura del National Front”, per concludere: “Stai davvero provando a fregarmi se dici che la nostra cultura starà bene, quando tutto ciò che rimarrà saranno dei coglioni che ballano il morris sugli Sham 69”.
Uno spietato cinismo – affine a quello tipico degli Sleaford Mods – fermentato al bancone del pub, incubatore nel quale Smith e il bassista Ryan Needham avevano riversato in origine idee e aspirazioni: «Ci ubriacavamo, scrivevamo canzonette e le registravamo su cassetta per darle agli amici», ha raccontato il primo a “The Guardian”. Il gruppo ha preso poi forma alla vigilia del Covid: coincidenza cronologica evocata con ironia da un pezzo intestato alle “bacchette in quarantena”. E il “sovraccarico” cui allude il titolo dev’essere di malcontento, precipitato emotivo nell’era delle disuguaglianze moltiplicate dalla pandemia, come certificano le statistiche: se ne occupa la velenosa doppietta costituita da “Rich” (“Sono diventato straricco e la gente per questo ti odia”) e “Payday”, “inno anticapitalista finanziato da una major discografica”, nella definizione del signor Smith, culminante nel risaputo motto “Prendi i soldi e scappa”.
Qui l’accento ritmico – percussioni afro su gagliardo basso funk – e il suono da tastierina Casio hanno qualcosa degli LCD Soundsystem, per quanto le ascendenze degli Yard Act siano anzitutto e ovviamente britanniche, dai citati modelli del passato ai più recenti Arctic Monkeys e Franz Ferdinand, fino ai contemporanei Dry Cleaning (simile il flusso di coscienza da voce monologante – “rap che non è rap”, a detta dell’autore – su basi post punk). Più della musica in sé, comunque, a fare la differenza è la stoffa narrativa espressa in una carrellata eterogenea di casi umani: il piccolo borghese di provincia nel tour-de-force biografico di “Tall Poppies” (esteso oltre la soglia dei sei minuti), un tizio inviperito con Dio perché ha reso il ghiaccio scivoloso in “Witness” (convulsa sveltina da 80 secondi, al contrario) e lo scaltro illusionista di “Land of the Blind”.
Lo sguardo d’insieme è amaramente esilarante, appena stemperato in chiusura dall’inopinata compassione che infonde “100% Endurance”. Termina così Overload, album di valore: forse non nuovo, ma senz’altro fresco.