U.S. Girls, il pop in versione #MeToo
Le canzoni di protesta in ghingheri di U.S. Girls, alias Meghan Remy, statunitense in Canada
Le “ragazze statunitensi” – U.S. Girls – in realtà sono una soltanto, Meghan Remy, nativa dell’Illinois, e per di più “cervello in fuga”, visto che da qualche tempo risiede a Toronto, in Canada.
Là ha trovato un ambiente consono al proprio talento musicale, manifestato in principio attraverso esperimenti elettronici a “bassa fedeltà” e solo in seguito approssimatosi a una dimensione maggiormente accessibile, grazie alla complicità del collettivo di artisti locali Cosmic Range, di cui fa parte il suo compagno Maximilian Turnbull.
Il piano, a proposito di questo album, sesto in assoluto nell’arco di dieci anni e secondo edito dalla prestigiosa indipendente londinese 4AD, era il seguente: «Volevo lavorare su un formato sonoro pop per poterci nascondere dentro varie stranezze e messaggi oscuri, sperando quasi che passassero inosservati». Di cosa si tratti, è presto detto: violenza domestica e sopraffazione maschile. Contenuti in perfetta sintonia con l’onda della campagna #MeToo. Tipo: “La vita non ha senso senza un po’ di botte, la vita è troppo tranquilla senza qualcuno che ti grida addosso”, constata con ironia “Incidental Boogie”, salvo concludere amaramente affermando “mi sento brutalizzata, ma più vicina a lui”.
Non trapela alcuna rassegnazione, viceversa, dall’iniziale ”Velvet 4 Sale”, che a dispetto dell’andamento sexy e della voce ammiccante invita ad armarsi per punire l’aguzzino. Sta appunto nel contrasto fra modi in apparenza seduttivi e argomenti graffianti il fascino insolito di queste canzoncine a doppio taglio. Nella disinvolta e stuzzicante “Pearly Gates”, ad esempio, incontriamo un San Pietro che fa il buttafuori alle porte del Paradiso abusando delle donne. E se lo sguardo si allarga alla politica, come accade in “Mad As Hell”, su ritmo disco alla Blondie vecchia maniera, la sentenza – destinatario Barack Obama, colpevole di aver infranto illusioni – è lapidaria: “Non dimenticherò, perché allora dovrei perdonare?”.
Epidermicamente gradevole all’ascolto (fa testo la squisitezza intitolata “Rosebud”, ultima parola pronunciata sul letto di morte da Charles Foster Kane in Quarto potere), benché non sempre (all’epilogo, “Time” – cover di un brano dell’oscuro cantautore Micah Blue Smaldone – parte su cadenze dance per poi precipitare in un’allucinazione psichedelica), In a Poem Unlimited è un’opera zeppa di sorprese agrodolci.