Tony Allen, jazz formato afrobeat

L’eccellente esordio su Blue Note del batterista nigeriano

Tony Allen The Source
Foto di Bernard Benant
Disco
world
Tony Allen
The Source
Blue Note
2017

Il titolo è indicativo: “la fonte”. Poiché in origine, mentre lavorava come tecnico presso la radio nazionale in Nigeria, cominciò a studiare la batteria da autodidatta prendendo a modello Max Roach e Art Blakey. A quest’ultimo, in particolare, ha dedicato in primavera un tributo in forma di EP, rileggendo quattro standard dei Jazz Messengers. In quel modo Tony Oladipo Allen ha debuttato, alla veneranda età di 77 anni, nei ranghi prestigiosi della Blue Note, ora editrice dell’ennesimo capitolo discografico della sua carriera individuale, avviata nel lontano 1975, quando ancora affiancava Fela Kuti, del quale fu collaboratore fedelissimo per un decennio e mezzo, dai Koola Lobitos agli Afrika 70, forgiando le geometrie ritmiche dell’afrobeat e divenendo strumentista impareggiabile (“Forse il più grande batterista che sia mai esistito”, a detta di Brian Eno).

Finora, tuttavia, quei trascorsi giovanili non erano stati evidenziati, benché nel tempo egli avesse frequentato ambienti sonori assai eterogenei, dal pop francese di Air e Charlotte Gainsbourg alla techno astrattista di Moritz Von Oswald. L’attesa è stata propizia, comunque: The Source è infatti un album di valore assoluto.

Non opera jazz in senso stretto, per quanto la sintassi compositiva – condivisa con Yann Jankielewicz, suo sassofonista di fiducia dal 2009 – si attenga ai canoni del genere (in controluce affiorano qui e là i profili di Ellington, Gillespie, Davis e Mingus), né tanto meno rievocazione didascalica dell’afrobeat di Fela (del resto a sua volta imparentato artisticamente ai jazzisti d’oltreoceano), il disco è frutto di un riuscito amalgama fra i due elementi. Dovendolo raffrontare con prototipi preesistenti, bisognerebbe riferirsi semmai al jazz etiope di Mulatu Astatke o allo stile esportato a Londra a metà anni Sessanta dagli esuli sudafricani Blue Notes. Lo confermano gli episodi in cui l’alchimia tra i fattori in gioco è più fluida: “Bad Roads”, “Wolf East Wolf” e “Tony’s Blues”. Merito anche della band d’accompagnamento, costituita da una decina di solisti di scuola parigina (tra questi, spiccano per qualità il pianista Jean-Philippe Day, il contrabbassista Mathias Allamane e l’unico altro africano in formazione, il chitarrista del Camerun Indy Dibongue). Degna di nota, infine, ancorché defilata al piano in “Cool Cats”, la partecipazione di Damon Albarn: fra i massimi estimatori del protagonista, da lui reclutato per i progetti The Good, The Bad & The Queen e Rocket Juice And The Moon.

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