Thundercat è tornato (ed è più serio)

It Is What It Is è il nuovo disco di Thundercat, prodotto da Flying Lotus: una contemplazione della vita e della morte

Thundercat nuovo album
Disco
pop
Thundercat
It Is What It Is
Brainfeeder Records
2020

“Hi. Hello. Is anybody there? Let me know if you can hear me”. È Stephen Bruner, in arte Thundercat, che ci parla dallo spazio e questa volta un po’ brillo, si è perso. Da lì, con il suo basso e la maglietta di Dragonball, ci regala il suo nuovo disco It Is What It Is. E mentre dal cielo volano copie dell’album, e noi dalle nostre quarantene apriamo le finestre sperando che folate di vento ce lo portino direttamente in camera, lui continua a lanciare segnali, SOS critici, domande intime, intervallate da linee di basso inquiete e dal funk che oggi appare più duro che mai.

Perché purtroppo, questa volta, insieme alla leggerezza, all’ironia, al suo “funny funky”, Thundercat sperimenta anche la perdita e, quando accade, siamo sempre impreparati. Del resto non avrebbe mai immaginato di cantare, se Erykah Badu non lo avesse spronato a diventare un frontman («Erykah è stata quella che mi ha veramente coltivato come artista, mi ha insegnato cosa significa essere Thundercat» ha dichiarato recentemente al "New York Times") e non avrebbe mai pensato di dover tornare a raccontare del dolore della perdita.

Lo aveva già fatto nel 2013 in Apocalypse (nella traccia “A Message for Austin/ Praise the Lord/ Enter the Void”), ricordando il pianista jazz Austin Peralta morto per droga. Così in It Is What It Is fa i conti con la morte di Mac Miller (settembre 2018), suo intimo amico e collaboratore. Questa volta però Thundercat si mette alla prova e sfida profondamente il dolore, lo guarda fisso negli occhi, esorcizzando la morte.

Il bassista e cantante di Los Angeles continua a interrogarsi sul senso della propria esistenza, sulla sua presenza sulla terra e sul significato della mortalità (temi quanto più attuali nel folle periodo che tutto il mondo sta vivendo), ma con l’idea di capire ciò che accade, o perlomeno provarci. «Questo album parla dell'amore, della perdita, della vita e degli alti e bassi che ne derivano – dice Thundercat a proposito del disco – è un po' ironico, ma in diversi punti della vita ti imbatti in luoghi che non capisci necessariamente. Alcune cose non sono destinate a essere capite». 

«Questo album parla dell'amore, della perdita, della vita e degli alti e bassi che ne derivano».

It Is What It Is, prodotto da Thundercat insieme a Flying Lotus, segue le linee e i toni più leggeri del precedente Drank (2017), anche se ora il bassista «ha preso la strada più oscura» (come ha detto a "Billboard" lo stesso Flying Lotus), e ce ne accorgiamo nel preludio sussurrato “Lost in Space/ Great Scott/ 22-26”, perché lo sentiamo anche noi il freddo gelido dell’assenza. È pur vero che attraverso la musica Thundercat trova una strana forma di resistenza alla claustrofobia oppressiva della morte, un’evasione momentanea dal dolore. Gli permette di continuare a girovagare nel suo spazio interstellare, facendosi consolare dall’amore e dal cosmic jazz, dal funk, o sedurre dalle giravolte appariscenti del sax di Kamasi Washington, prima di farsi rincorrere di nuovo da una batteria rock impazzita, in “I Love Louis Cole”, addolcita dalla voce angelica di – appunto – Louis Cole. L’apertura del sipario è delicata, Thundercat entra in punta di piedi, come se avesse paura del percorso, ma consapevole della necessità di una elaborazione profonda. Ogni tanto si sveglia per tuffarsi nel funk brillante e fangoso di “Black Qualls”, con i giri virtuosistici del basso, lanciati su un pavimento fluttuante, accompagnati dalle voci di Childish Gambino, Steve Lacy e Steve Arrington.

Black music per la reclusione forzata

Quel mood da party alla L.A. lo ritroviamo anche in “Miguel’s Happy Dance”, in “How Sway”, un minuto e quindici secondi di biscrome elettroniche impazzite con il basso che si lascia andare definitivamente, raggiungendo la strada della beatificazione. La verità alla fine esce fuori in tutta la sua fragilità in “Funny Thing”: “ ’Cause I'm just a little drunk, and I want to come party with you” confessa mentre ci fa ondeggiare tra un beat e l’altro. E se nella sezione centrale oscilliamo in un groove leggero fatto di testi ironici, come in “Dragonball Durag” (“I may be covered in cat hair, but I still smell good.”) o in “Overseas”, in cui assaporiamo la brezza dell’oceano, facendoci anche due risate con la verve comica di Zack Fox, dalla decima traccia in poi il cerchio sembra chiudersi.

Il dolore torna in “How I Feel”, nella domanda universale: “Is this real?”, perché il dolore è reale solo quando ci arriva forte come un pugno dritto in faccia. Ora Thundercat è steso per terra, con gli occhi rivolti al cielo, esplora teneramente il lutto e in “Fair Chance” Ty Dolla $ign e Lil B lo supportano con le loro voci sincere, insieme ai suoi cupi falsetti. Ci lascia così, con quel “Hey Mac” dell’ultima traccia “It Is What It Is”, con il suo cuore spezzato tra le nostre mani e folate di vento ancora fredde.

Ma il cielo ora non è cupo, è aperto ad accogliere una strana pace, una serenità nuova che prefigura un dopo. Ce ne accorgiamo dalle note poetiche della chitarra di Pedro Martins e da un accordo tra il basso e la batteria che ha un forte senso di vita. Alla fine il cerchio si chiude. Dal suo spazio lontano Thundercat appoggia il suo basso a terra e ci consegna solo quello che è, quello che esiste: la perdita e la sua accettazione. E a noi, per fortuna, nelle nostre stanze della quarantena, ci arriva uno dei migliori dischi di questo folle 2020. 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

pop

La prima da solista di Kim Deal

Nobody Loves You More è il primo album dell’icona femminile dell’indie rock statunitense

Alberto Campo
pop

L'album di famiglia di Laura Marling

Il nuovo disco della cantautrice inglese Laura Marling nasce dall’esperienza della maternità

Alberto Campo
pop

Godspeed You! Black Emperor: un requiem per Gaza

Il nuovo lavoro della band canadese è ispirato al dramma del popolo palestinese

Alberto Campo