Sudan Archives, una reginetta esuberante
In Natural Brown Prom Queen la statunitense Brittney Denise Sparks inscena un’autobiografia pop
Da ragazzina, Brittney Denise Parks – alias Sudan Archives – avrebbe potuto imboccare una scorciatoia verso il successo: il patrigno, implicato nell’etichetta discografica LaFace (che, per dirne una, scritturò gli esordienti OutKast), premeva affinché accadesse. Lo racconta lei stessa in “NBPQ (Topless)”, celando dietro un acronimo il titolo del secondo album: “Lasciate che vi parli di questa ragazza, Sudan, aveva un gran cuore e un gran sorriso. Mamma bussò alla porta ‘toc toc toc’ e disse: ‘Il mio uomo pensa che tu possa diventare una star’. E così eccola sistemata in un duo pop con la sorella gemella, Catherine Parks, ma in realtà non funzionò affatto”.
Si ribellò a quel destino e perciò fu cacciata di casa. Emigrata giovanissima da Cincinnati a Los Angeles, intraprese un cammino individuale di natura opposta: tempo prima si era invaghita del violino, assistendo a un concerto di musica tradizionale irlandese, e strada facendo s’imbatté nello stile precipuo di alcuni artisti africani, in particolare il sudanese Asim Gorashi, emulando il quale si appropriò dello strumento da autodidatta. Da lì deriva lo pseudonimo scelto per designare la sua carriera, Sudan Archives: intestazione che sa di “world music” e riverbera l’esperienza fatta al Pasadena City College, studiando etnomusicologia.
Eppure, dopo i primi passi mossi in area vagamente avant-garde, già nel precedente Athena (2019) aveva avviato un percorso di riavvicinamento alla dimensione pop, culminante adesso in Natural Brown Prom Queen, ostentando un profilo intenzionalmente esuberante e ipersessualizzato. “Non sono nella media”, proclama nel brano citato, concluso da uno sfacciato “Fuori le tette!”.
A guidare la danza è un incalzante ritmo afro costruito intorno a un intricato riff di oud, sul quale la protagonista snocciola una versione personale dell’R&B contemporaneo, tipo una Beyoncé equatoriale: “A volte penso che se avessi la pelle chiara, allora entrerei in tutte le feste, vincerei tutti i Grammy e farei felici i ragazzi”.
L’anticipa in sequenza, aprendola, “Home Maker”, dove in coda a una pensosa ouverture ambient jazz sgorga un groove altrettanto accattivante e l’anfitriona dà il benvenuto a chi ascolta: “Non volete entrare nella mia graziosa dimora? È così verde, sembra una cazzo di magia, solo ragazzacce nei miei tralci e – pupo – io sono la più cattiva”.
Lasciandosi suggestionare da alcuni passaggi, fra i modelli di riferimento vengono in mente Janelle Monáe, nello sviluppo visionario di “FLUE”, episodio in cui svetta un violino carico di spleen, e M.I.A., per quel modo di esprimersi in forma di filastrocca durante “Selfish Soul” (si parla di taglio di capelli, ma il senso riguarda l’autoaffermazione: “È ora di abbracciare me stessa e la mia anima, è ora di nutrire la mia anima egoista”), mentre lo strumento elettivo disegna geometrie spigolose.
Lo spettro stilistico dispiegato nel corso del disco e piuttosto ampio, dall’R&B avveniristico di “Freakalizer” al soul carezzevole di “Milk Me”, e non sempre a Sudan Archives le ciambelle riescono con il buco, ma quando capita l’effetto è ammaliante, anche nella cavernosa ed erotica indolenza footwork di “OMG Britt”.
A 28 anni, la Reginetta del Ballo Mora Naturale mostra di saper stare in equilibrio fra ambizioni culturali (il testo introduttivo scritto dal poeta Abdurraqib Hanif) e sfarzo mainstream (a febbraio è stata testimonial di Prada in un evento organizzato a Los Angeles). È pronta dunque per il successo, ma alle sue condizioni.