St. Vincent negli anni Settanta
In Daddy’s Home si ammira l’ennesima metamorfosi di St. Vincent, ora diva trasformista alla Bowie
Annie Erin Clark – ovvero St. Vincent – assistette al primo concerto della vita non ancora dodicenne, il 2 settembre 1994: allo Starplex Amphitheatre di Dallas suonavano gli Steely Dan. Ci andò insieme a papà, suo mentore musicale, che l’aveva introdotta inoltre all’Holden Caulfield di Salinger e le stava somministrando una dieta cinematografica basata sui film della Nouvelle Vague francese. Nel 2010 lo stesso uomo sarebbe finito dietro le sbarre, punito con 12 anni di reclusione essendo corresponsabile di una frode finanziaria da decine di milioni di dollari: “Nostro padre in esilio, Dio solo sa per quanti anni”, avrebbe cantato lei in Strange Mercy, brano che dà titolo al terzo atto interpretato dall’alter ego creato nel 2006, St. Vincent appunto.
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Due dischi più tardi si sarebbe aggiudicata un paio di Grammy Awards: onorificenze riscosse nel febbraio 2019, quando il babbo veniva rimesso in libertà grazie a una riduzione di pena. È lui il “detenuto 502” di cui parla Daddy’s Home, title track del nuovo lavoro, aperta da un’immagine paradossale: “Firmavo autografi nella stanza delle visite”.
Mentre il padre scontava la condanna, la figlia era diventata una stella. Nasce appunto da questo groviglio emotivo il suo sesto album, diverso dai precedenti, poiché ogni volta l’autrice varia intenzionalmente il soggetto sul quale applicarsi, mutando di conseguenza contesto, codici musicali e messinscena alla maniera del trasformista Bowie.
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Alla provocante dominatrix dispensatrice di glam sintetico in Masseduction subentra adesso una donna di vacillante bellezza: “Come le eroine di Cassavetes, sono quotidianamente in stato di ebbrezza”, recita un verso di “The Laughing Man”. Un personaggio che indossa parrucca bionda e “tacchi alti della notte scorsa sul treno del mattino”, descrive all’inizio – fra un sitar e un piano elettrico Wurlitzer – “Down and Out”: lo raffigura in video la canzone posta in avvio, “Pay Your Way in Pain”.
L’ambiente sonoro è derivato dallo stile newyorkese della prima metà dei Settanta, «musica pop tremendamente sofisticata» ha specificato lei in un’intervista a “Esquire”, ossia quella immortalata nei solchi dei long playing della collezione paterna: Steely Dan a parte, dall’Harry Nilsson di Nilsson Schmilsson al Lou Reed di Transformer. Analogamente a quest’ultimo, durante “Walk on the Wild Side”, pure St. Vincent rende omaggio alla diva warholiana Candy Darling, intestandole l’episodio di chiusura: malinconico e – ovviamente – decadente.
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Contiene tributi d’altro genere “The Melting of the Sun”, che dopo aver spedito – pensando ai Pink Floyd – “saluti dal lato oscuro della Luna” celebra in sequenza “santa Joni”, la “prode Tori” e la “fiera Nina”.
Alternando con grazia gli ingredienti, in un repertorio che agli arpeggi folk modello Laurel Canyon di “Somebody Like Me” oppone il sensuale funk minimalista di “Down”, la protagonista imbastisce un raffinato incantesimo spazio-temporale, proiettando ai giorni nostri argomenti e umori vecchi di mezzo secolo.
Tanto vale arrendersi al suo fascino e seguirne i consigli, allora: “Versatevi un bicchiere di tequila o bourbon, o del liquore che preferite, fumate una canna e ascoltatelo”.