Sifr, il suono dei Motus Laevus

Nuovo album per il trio Motus Laevus di Edmondo Romano, Tina Omerzo e Luca Falomi

Motus Laevus Sifr
Disco
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Motus Laevus
Sifr
Felmay

Francesco Remotti, professore emerito di antropologia, ha scritto nel recente libro per Squilibri Suono bene comune. Riflessioni, esperienze e progetti dalla pandemia che anche le culture musicali, come i beni naturali (l’acqua, il legname del bosco per una comunità) sono commons, beni comuni.  Le culture delle musiche, in altre parole, sono “aree di condivisione”.

Se alla parola chiave condivisione ne aggiungete un’altra, mediazione, si può saltare a piè pari il brutto termine che a partire agli anni novanta dello scorso secolo si affibbiava a chiunque facesse incontrare qualcosa con qualcos’altro, contaminazione: quasi che ci fosse da scambiarsi germi e batteri, non idee e pratiche di cultura.

– Leggi anche: Motus Laevus, i confini del Mediterraneo

Motus Laevus, la formazione ideata dal multifiatista e compositore Edmondo Romano, è un triangolo equilatero che comprende anche tasti, voce ed elettronica della slovena Tina Omerzo, da un quarto di secolo a Genova, e le corde guizzanti di Luca Falomi, è un esempio perfetto di quelle musiche di mediazione e condivisione cui si accennava all’inizio.

E forse lo status erratico e curioso dei nove splendidi brani racchiusi in Sifr era già inscritto nelle variegate, corpose biografie artistiche dei protagonisti. Perfino Falomi, il più giovane dei tre, un passato tra note classiche, jazz, fusion, brasiliane, popolari ricorda di aver ascoltato con interesse e curiosità, ancora bambino, quella “world music mediterranea” o “etnojazz” in varie declinazioni che in quel di Genova era un anello forte: vedi alla voce Avarta, Echo Art, Cadira, Rebis, Orchestra Bailam, Arancia Balcanika, eccetera.

Sifr, secondo disco, prende il nome da “zero” in arabo, ma significa anche cerchio, vuoto, nulla, è la radice di “zefiro”: un vuoto tondo che può far diventare enormi le quantità: provate ad accostare più zeri alle unità, e ne avrete controprova pratica.

Qui, in poco più di cinquanta minuti di musica serrata o dolcissima, o tutte e due le cose, con un frequente surplus di grazia per la voce vibrante di Tina Omerzo, troverete una linea geografica ben precisa che va e torna dalla Penisola anatolica alla Slovenia, tappe intermedie in Macedonia e  in Turchia.

È quella “linea di faglia” balcanica che già Mauro Pagani individuò come corpo grosso e snodo per molte delle musiche più intense del Mediterraneo: la linea dei tempi dispari e composti per la danza, e la grande eredità storica dei “modi” greci tramandati, affinati, perfezionati in tutto ciò che afferisce alla grande costruzione del maqam.

Perfetto l’esempio dell’iniziale "Nihàved Longa": un brano  per la danza uscito dalla penna della compositrice Kemani Kevser Hanim tra Ottocento e Novecento, che ci racconta della passione turca per la musica zingara rumena. E funziona anche l’interazione tra brani portati dalla memoria della tradizione ("Jovano Jovanke", popolarissima nella ex Jugoslavia), o "Brala Jana Kapini", e brani di composizione, come la misteriosa, malinconica "La tredicesima ora", scritta da Falomi durante il lockdown.

Resta da dire che al trio di base si uniscono Max Trabucco a batteria e percussioni e Alessandro Turchet al contrabbasso: erano i due sodali di Falomi in Naviganti e sognatori, altro bel progetto pan-mediterraneo. Registrazione in presa diretta (luminosa, ma non poteva essere altrimenti) di Stefano Amerio ad Artesuono, Udine, dove nascono tanti dischi Ecm.

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