Paolo Spaccamonti, un capolavoro di poche parole
Volume 4 è il nuovo album del chitarrista torinese Paolo Spaccamonti, che conferma la sua personale cifra espressiva
Inevitabilmente laconica, essendo quella di Paolo Spaccamonti musica strumentale. Né fornisce spunti interpretativi l’intestazione del disco, Volume 4, che si limita a segnalarne la posizione nella sequenza cronologica della produzione individuale del chitarrista torinese, in attività da un decennio esatto. Enigmatica la copertina, poi: riproduzione di un’opera dell’artista veneta Laura Fortin, l’acrilico su tela Maybe I Am Billie Holiday.
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E tuttavia, ascoltandolo, ci s’immerge in un mondo gravido di suggestioni, invogliati ad associare al suono le evocazioni espresse nei titoli dei brani: dalla spartana dimensione domestica dello sketch iniziale “Cuocere verdure e fare il brodo con le ossa” al “Fumo negli occhi” soffiato da un bordone metallico greve e minaccioso quanto quelli dei Sunn O))), attraversando – su fondali ambient adeguatamente brumosi – “Un gelido inverno”.
Sarà banale dirlo, vista la frequenza con la quale Paolo Spaccamonti – da solo o in compagnia di altri strumentisti: Julia Kent, Jim White degli australiani Dirty Three, Stefano Pilia, Jochen Arbeit degli Einstürzende Neubauten, Ramon Moro… – ha messo le proprie creazioni al servizio dei film, sovente musicandone di muti e talora curandone invece la colonna sonora (ad esempio per I cormorani di Fabio Bobbio), ma la sensazione è “cinematografica”. Per stare a tema, le analogie rimandano al Ry Cooder di Paris, Texas (l’arpeggio desertico di “Diagonal”), però in versione XXI secolo, o al Neil Young di Dead Man (nell’atmosfera da western avveniristico di “Nessun codardo tranne voi”), con maggiore pulsione ritmica.
La simbiosi fra musica e immagini prende corpo infine nell’austero video abbinato ad “Ablazioni”, fra gli episodi più affascinanti dell’intera raccolta.
Guardando altrove e immaginando connessioni, ecco che il blues spettrale di “Luce”, dove sembra di sentire i Massimo Volume senza voce, oppure lo spleen meditabondo di “Paul Dance”, su cui aleggia addirittura lo spirito di Viny Reilly, chitarrista anch’egli ed eroe minore nella Manchester dei tardi anni Settanta con lo pseudonimo Durutti Column.
Si farebbe comunque torto al protagonista accostandolo necessariamente a qualche ascendente particolare: la verità è che ha definito ormai una propria notevole cifra espressiva, come testimonia in maniera eloquente la densità emotiva dell’arabesco disegnato al culmine di “Nina”.
Volume 4 di Paolo Spaccamonti è in sostanza un piccolo capolavoro di poche parole.