Neneh Cherry, ribelle con grazia
Il nuovo album di Neneh Cherry è un seducente esercizio di agit-pop
Sono trascorsi 30 anni esatti dal momento in cui, al ritmo di “Buffalo Stance”, Neneh Cherry sembrava in procinto di tramutarsi in diva pop. Le cose andarono diversamente perché non volle accettare le regole del gioco e scelse di seguire un percorso coerente alle proprie convinzioni. Addirittura, nel 1996, dopo aver messo in bacheca un altro classico (il duetto con Youssou N’Dour in “Seven Seconds”), decise di uscire dai radar.
È ricomparsa poi al principio del decennio scorso, prima sottotraccia e quindi – nel 2014 – con un nuovo album, quarto della serie, Blank Project, prodotto – come questo – da Four Tet, raffinato esponente del suono elettronico contemporaneo, e al solito concepito in coppia con il partner Cameron McVey, implicato agli albori del trip hop – sotto lo pseudonimo Booga Bear – in Blue Lines, leggendario esordio dei Massive Attack. Robert “3D” Del Naja – principale forza motrice di questi ultimi – mette qui lo zampino in “Kong”: lo si percepisce dall’ipnotico groove in stile dub del brano.
Ispirato all’esperienza da volontaria vissuta nel campo profughi di Calais, è uno degli episodi da cui trapela l’attitudine politica di Neneh Cherry, che volge lo sguardo intorno a sé e ne ricava un quadro poco edificante, tra febbre per le armi (“Shot Gun Shack”), sessismo (“Black Monday” offre un punto di vista femminile sulla questione dell’aborto) e “menzogne che circolano più veloci della verità” (recita il testo di “Faster Than the Truth”). Per trovare antidoti, rievoca – nel breve interludio “Poem Daddy” – l’esempio dei Last Poets: “Meglio morire per una nobile causa che vivere e morire da schiavo” (citazione da “Blessed Are Those Who Struggle”).
Eppure non è mai didascalica, anzi: si concede sovente un tono confidenziale (“Il mio nome è Neneh, dieci marzo, segno d’acqua”, in “Synchronised Devotion”) e in genere seduce anziché aggredire, eccezion fatta per “Natural Skin Deep”, fra trombe da stadio, steel drums, sussulti digitali e schegge di jazz.
La circonda un ambiente sonoro tendente all’essenziale, a tratti impreziosito da spezie esotiche (kora, flauti e percussioni in “Slow Release”, un’arpa nell’iniziale e deliziosa “Fallen Leaves”): condizione ideale per apprezzare la sua voce, assoluta protagonista del disco.
Broken Politics è gradevole all’ascolto, senza ricorrere comunque a soluzioni ovvie. Perciò non l’avvisteremo in hit parade: ora territorio di caccia destinato alla figlia ventunenne di Neneh, Mabel, astro nascente nel firmamento dell’R&B britannico. Donna nel pieno della maturità, la madre preferisce gratificazioni meno effimere.