Nel labirinto maternalistico di Björk
Fossora è il “difficile” decimo album dell’artista islandese
Pezzo d’apertura e primo a essere svelato, a fine agosto, il biglietto da visita scelto da Björk per introdurre Fossora, decimo album in trent’anni di carriera da solista, non è esattamente invitante: fiati cameristici, spasmi ritmici, gorgheggi arzigogolati, una melodia sofferta.
È intitolato “Atopos”, vocabolo greco – equivalente a “inclassificabile” – caro a Roland Barthes, che ne scriveva in Frammenti di un discorso amoroso. E dunque: "Se non sbocciamo all’esterno verso l’amore, imploderemo internamente verso la distruzione", ammonisce a un certo punto. Fra le righe, poi, sembra quasi un rimbrotto rivolto alla cancel culture: "Insistere sempre sulla giustizia assoluta blocca la connessione". Quanto una sovrabbondanza di argomenti può appesantire la comunicazione?
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La cinquantaseienne artista islandese non se ne cura: ha molto da dire e lo fa senza remora alcuna. Ecco allora “Ovule”, secondo episodio in sequenza e nell’ordine d’apparizione in video, a metà settembre: lo guidano un trombone moltiplicato artificialmente e la cadenza dei timpani. La voce svolazza, raccontando: “Da ragazza credevo che l’amore fosse un edificio verso cui marciare, ma diabolici divorzi letali hanno demolito quell’ideale”. Anche in questo caso, lo sviluppo è faticoso e l’ascolto niente affatto facile: tornano in mente i dischi “difficili” di Scott Walker.
Serve pazienza. E applicazione. Tipo orientarsi in un labirinto. Proviamo a decifrare l’opera esaminando il brano che la intesta, volgendo al femminile il lemma latino riferito a chi scava: ai clarinetti del sestetto Murmuri si somma un oboe creando un’orchestrazione di sapore medievale, nella quale s’insinua tortuoso il canto, finché irrompe con ferocia hardcore un impulso technoide fornito dall’indonesiano Kasimyn del duo Gabber Modus Operandi (specializzato nella combinazione di gamelan ed elettronica da rave). Roba tosta.
Dice il testo: “I suoi nervi si aprono come ali alla velocità del micelio, nell’atmosfera ci sono spore ovunque”. Lo scenario raffigurato in copertina è popolato perciò da funghi, “nuclei neurali delle foreste”, ha spiegato l’autrice a “The Atlantic”. Compaiono qui in “Fungal City”, tra clarinetti sincopati, contrappunti d’archi e concitazione percussiva, con un cammeo al microfono dello statunitense Serpentwithfeet, e nello sketch polifonico dall’umore avant-garde (modello Joan La Barbara o Steve Reich) chiamato “Mycelia”. Quest’ultimo precede un doppio tributo alla madre, scomparsa nel 2018: un’“elegia” che riecheggia le misteriose Voci Bulgare, “Sorrowful Soil” (“Le nostre radici affondano in un terreno doloroso”), e un “epitaffio” – “Ancestress” – annunciato da un solenne colpo di gong, seguito da un dolente crescendo d’archi e punteggiato da tastiere in foggia di carillon, dove alla protagonista si unisce il figlio trentaseienne Sindri, che l’ha resa giovane nonna nel gennaio 2019.
Recita l’epigrafe: “Aveva un senso del ritmo idiosincratico. Dislessia, il massimo della libertà. Inventa parole e aggiunge sillabe. Scrive a mano, un linguaggio tutto suo”. Nella genealogia matrilineare suggerita dalla trama viene infine Ísadóra, figlia diciannovenne che duetta con mamma all’epilogo, nella tenera quiete di “Her Mother’s House”: “Più ti amo, più diventi forte e meno hai bisogno di me”, rassicura la genitrice.
Ci avviciniamo così al cuore emozionale del disco, palpitante al suono di un leggiadro esercito di flauti nel paesaggio bucolico di “Allow” e addirittura sentimentale nella postura malinconicamente serena di “Freefall” (“Mi lascio cadere fra le tue braccia, dentro la forma dell’amore creata da noi, la nostra amaca emotiva”), quando da “Victimhood”, facendosi largo tra ance minacciose e cavernosi corni da nebbia, trapelano tracce residue dei traumi affettivi di cui si erano nutriti gli antecedenti Vulnicura (2015) e Utopia (2017): “Solo uno sguardo da uccello mi può aiutare a liberarmi da questo buco”.
Anziché a quegli album, in termini di significato Fossora si collega semmai all’astrale Biophilia (2011), rappresentandone il complemento terragno, e riafferma l’identità ineffabile di Björk: personaggio che fa categoria a sé. Inclassificabile, appunto.