Nel Blur dipinto di Blur
I Blur arrivano in Italia e pubblicano un disco nuovo: The Ballad of Darren
Sullo slancio della trionfale doppietta casalinga a Wembley, un paio di settimane fa, con oltre 150mila spettatori paganti, la tournée dei Blur fa scalo sabato a Lucca.
Ad aprire lo show è una canzone nuova, inclusa in The Ballad of Darren, album in uscita alla vigilia dell’unica apparizione in Italia: l’episodio più “rock” della raccolta, con quella spigolosa chitarra che ricalca le geometrie elettriche disegnate da Robert Fripp in “Scary Monsters” di Bowie ed enfatizza le visioni da incubo domestico evocate nel testo (“Perché qui c'è qualcosa e vive sotto le assi del pavimento, mi ha afferrato per il collo con i suoi lunghi artigli affilati”).
Ancora pochi mesi fa non c’era alcuna avvisaglia che facesse presagire il ritorno del quartetto londinese sul fronte discografico, fermo a Magic Whip (2015), addirittura precedente la Brexit!
Damon Albarn era al solito indaffaratissimo, fra Gorillaz (dopo Cracker Island, edito a febbraio, è già in cantiere il successore) e attività individuali (prossimamente replicherà l’esperienza operistica di Dr Dee musicando il libretto scritto da Goethe come sequel a Il flauto magico di Mozart), mentre Graham Coxon aveva appena varato il progetto The Waeve e Dave Rowntree si era espresso per la prima volta da solista con Radio Songs.
In sala prove insieme ad Alex James, questi ultimi due stavano rodando il repertorio in vista degli impegni dal vivo, quando Albarn è rientrato a Londra approfittando di una pausa nel tour dei Gorillaz: portava con sé un gruzzolo di provini abbozzati «durante i tempi morti nelle stanze d’albergo in America», ha raccontato.
Era quello che ci voleva: «Sentivo un po’ d’imbarazzo al pensiero di fare concerti senza niente di nuovo da suonare», ha confidato Coxon a “Mojo”. E così si sono ritrovati «tutti nella stessa stanza, cosa che non accadeva da un mucchio di tempo», per dirla con Damon, il quale l’ha definito «un affare di famiglia», premessa dell’esito: «Il primo album autentico da 13», roba del secolo scorso!
La sensazione da rimpatriata di amici fraterni trapela persino dal titolo: Darren “Smoggy” Evans ha lavorato con loro da guardia del corpo ed è inoltre colui che ha insistito ostinatamente affinché Albarn completasse l’“Half a Song” contenuta in Democrazy, esordio semiserio a suo nome datato 2003.
Detto fatto: ecco “The Ballad”, incaricata di avviare la sequenza su un registro malinconico (sconsolato l’incipit: “Ho guardato dentro la mia vita e tutto quel che ho visto è che tu non tornerai indietro”). Il tema delle separazioni è ricorrente: riaffiora ad esempio in “Barbaric”, dinamico numero Britpop con fraseggio chitarristico degno del migliore Johnny Marr (“Se hai tempo, vorrei spiegarti ciò che questa rottura ha provocato in me, ho perso il sentimento che pensavo di non perdere mai, e adesso dove sto andando?”), e in “Goodbye Albert”, raffinatezza pop sorretta da una sommessa pulsazione elettronica (“Perché non parli più con me? Non punirmi per sempre!”).
A certificare l’elevato tasso di spleen è “The Everglades (for Leonard)”, tenue madrigale acustico in onore di Cohen dal tono compassionevole (“Ci sia misericordia per tutti e vengano giorni più tranquilli”): qui si ascolta il suono del quartetto d’archi femminile che aleggia pure nella rarefatta “Far Away Island”, scandita a ritmo di valzer dal piano. Sono al contrario più compositi gli arrangiamenti in “The Heights”, solenne cerimonia di congedo del disco (“Un giorno ti vedrò lassù, ci arriverò anch’io, sarò in prima fila, accanto a te”), e nel brano in cui viene rispolverato il mito di “Avalon” in chiave esistenzialista (“Che senso ha costruire Avalon se non riesci a essere felice quando hai finito?”), offrendo poi un raggelante scorcio di attualità (“Aeroplani dipinti di grigio diretti verso la guerra”).
Efficace in cabina di regia il lavoro di James Ford, produttore di fiducia degli Arctic Monkeys (considerati da Albarn “l’ultima grande band con le chitarre”), ai quali sembra alludere l’eleganza “lounge” di “Russian Strings”. Pezzo forte di una collezione essenziale nella sostanza (dieci tracce in 36 minuti) è però “The Narcissist”, che ha stimmate da classico e non a caso fa coppia con “The Universal” in coda al concerto: “Ho guardato lo specchio, quanta gente lì davanti, ho camminato verso di loro, sotto i riflettori, non ho sentito eco, c’era distorsione ovunque, ho trovato il mio ego”.
Nono capitolo della serie inaugurata nel 1991 da Leisure, pubblicato quasi in coincidenza con il trentennale del secondo, Modern Life Is Rubbish, The Ballad of Darren è inconfondibilmente Blur, ma fresco: risultato egregio per quattro ragazzi ormai ultracinquantenni.