The National, l'amore ai tempi di Trump
Il nuovo, oscuro disco del gruppo di Matt Berninger e dei fratelli Dessner
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Nel 2008 Barack Obama utilizzò una canzone dei The National, “Fake Empire”, durante la marcia trionfale che lo condusse alla Casa Bianca. Ora tira invece tutt’altra aria, oltreoceano. A descrivere l’atmosfera basterebbe il titolo del brano migliore del disco nuovo, degno di un romanzo distopico di Philip Dick: “il Sistema sogna solo nella completa oscurità”.
“The System Only Dreams in Total Darkness” ha i tratti classici della musica “nazionale”: una combinazione di pathos, ingegnosità e raffinatezza messa in mostra negli album che hanno reso celebre il quintetto, Boxer e High Violet, datati rispettivamente 2007 e 2010. Descrivendolo, il cantante Matt Berninger l’ha definito “un ritratto astratto dei tempi strani in cui viviamo”. Sono più espliciti alcuni versi che affiorano dal rock a tinte fosche di “Turtleneck”: “Un altro uomo con abiti di merda per cui tifano tutti, questo dev’essere il genio che stavamo aspettando da anni, oh no: è così imbarazzante”.
Sleep Well Beast non è tuttavia un’opera politica in senso stretto: al centro dell’attenzione stanno i sentimenti domestici, in particolare i “matrimoni che vanno a rotoli”, per citare un’espressione usata in un’intervista da Berninger, autore – nonché interprete con tipica voce baritonale da crooner – dei testi insieme alla moglie Carin Besser. Il tono è in prevalenza malinconico, dunque, persino più di quanto fosse in passato: lo stabilisce all’inizio “Nobody Else Will Be There” e lo riaffermano strada facendo “Born to Beg”, l’ispirata e crepuscolare “Guilty Party”, “Carin at the Liquor Store” a ritmo di valzer e la successiva “Dark Side of the Gym”, il cui asimmetrico epilogo orchestrale porta l’impronta di Bryce Dessner (di suo compositore avant-garde e direttore di festival), con il gemello Aaron coppia motrice musicale della band, che si avvale altresì del propellente ritmico fornito dai fratelli Devendorf, il batterista Bryan e il bassista Scott, ammirevoli nel rendere incalzante “Day I Die”. Un gruppo a conduzione familiare, o quasi, insomma. Rispetto ai sei lavori precedenti, questo conferma l’impercettibile eppure significativo spostamento del suono verso l’elettronica captato già quattro anni fa in Trouble Will Find Me, qui evidente – ancorché misurato – in episodi quali “Walk It Back” e “I’ll Still Destroy You”, ma soprattutto in quello che conclude e intesta la raccolta.