Mouse on Mars, uomini a molte dimensioni
Dimensional People è il nuovo notevole disco dei tedeschi Mouse On Mars: l’avanguardia dal volto umano, con Bon Iver e The National
In origine doveva essere intestato al “Nuovo socialismo costruttivista”, volendo dichiararne – immaginiamo – la densità concettuale. È infatti impressionante la quantità di argomenti condensata nell’undicesimo album dei Mouse on Mars, duo costituito 25 anni fa da Jan St. Werner e Andi Toma sull’asse Colonia/Düsseldorf.
Così come impressionante è il numero dei musicisti coinvolti nell’impresa di Dimensional People: una cinquantina, a conti fatti, tra cui spiccano alcune icone del circuito indipendente, dai gemelli Dessner, coppia motrice dei National, a Justin Vernon, alias Bon Iver. Il “topo marziano” è abituato ad avventure simili, del resto: basti ricordare la memorabile partnership – nel progetto Von Südenfed– con Mark E. Smith dei Fall, artista in apparenza agli antipodi rispetto all’area della cosiddetta “dance intelligente” cui per convenzione i due tedeschi vengono associati. Refrattari alle catalogazioni (a chi provò a collocarli nell’alveo del “post rock”, risposero nel 2003 chiamando ironicamente una collezione antologica Rost Pocks), tendono dunque all’elusività.
Parlando di ciò che producono, St. Werner affermò tempo fa in un’intervista: «Riguarda le strutture, lo spazio, i groove, le prospettive, il vedere le cose da molte angolature differenti. Non ha a che fare con la melodia o l’armonia». Esaminiamo allora il disco nuovo, distante sei anni dal precedente Patastrophics e pubblicato dall’etichetta newyorkese già editrice di alcuni classici dei Mouse On Mars – Niun Niggung,Idiology e Radical Connector – al principio del decennio scorso.
Punto di partenza, a detta degli autori, è stato il footwork di Chicago, sulla cui cadenza tipica – a 145 bpm – è sincronizzato il ticchettio percussivo del primo dei tre movimenti della suite che apre e intitola l’opera: un crescendo elettronico incalzante, destinato a sfociare in uno schema minimalista alla Steve Reich, ma come fosse un videogioco. Dopo di che tale geometria si disgrega sotto l’impulso di una batteria dagli accenti jazz e i frammenti precipitano dentro una camera d’eco dalla quale sbuca – deformata – la voce del citato Vernon, infine protagonista di una diafana elegia in chiave ambient.
Analoga sorte subisce l’altro trittico, benché non consecutivo, incaricato di descrivere un “Parlamento di Alieni”: l’esordio è da avant-garde cameristica, con violino stridente, vocalismi ineffabili e vezzi rumoristi, laddove lo sbocco è un panorama sonoro quieto e rarefatto. E non finisce qui: ecco ad esempio l’hip hop astratto di “Foul Mouth”, la narrazione ipnotica in habitat afrofuturista di “Résumé” e – all’epilogo – la squisita vibrazione esotica a ritmo di bossa nova di “Sidney in a Cup”. Un album fenomenale, realizzato impiegando tecnologie sofisticate (il software MoMinstruments, da loro stessi creato, e il mixaggio in modalità Object-Based Audio) ma animato in maniera determinante dal fattore umano.