Moses Sumney nell'élite della black music
græ, il nuovo album di Moses Sumney, è un capolavoro (a puntate)
“Isolamento deriva da ‘insula’ che significa isola. Ed eccoci nel grigio”, recita in apertura del disco di Moses Sumney la voce di Taiye Selasi, scrittrice “afropolitana” residente a Roma, da noi nota per essere stata nel 2013 giudice nel talent show a carattere letterario Masterpiece in onda su Rai 3. È fra i complici – su scala musicale spiccano Daniel Lopatin, alias Oneohtrix Point Never, e Thundercat – coinvolti da Sumney nell’ambiziosa impresa intestata al colore dipinto nel titolo: un disco doppio la cui prima parte è disponibile da qualche giorno sulle piattaforme digitali, mentre la seconda – sommando a questa dozzina di brani altri otto – seguirà a metà maggio, quando l’opera assumerà concretezza di prodotto materiale.
Californiano con radici in Ghana, dove ha vissuto dai 10 ai 16 anni con i genitori, rientrati momentaneamente in patria essendo immigrati clandestini in America, il ventottenne Moses Sumney si era segnalato da esordiente nel 2017 con l’acclamato Aromanticism, che ha avuto eco in varie serie televisive, su tutte Orange Is the New Black. Cantautore soul cresciuto nel circuito indipendente, aveva messo a frutto allora una combinazione fatta di studi universitari (scrittura creativa e poesia presso l’UCLA) e apprendimento da autodidatta (il fare musica) guadagnando immediatamente fama da astro nascente, attestata dai suoi cammei negli album più recenti di James Blake e Cinematic Orchestra.
Che græ aspiri allo status di magnum opus è dimostrato dalla cerimonia di vernissage celebrata con un’installazione a tema, dal 12 febbraio sino al 4 marzo, con concerti a cadenza settimanale, negli spazi del Bootleg Theater di Los Angeles, sul palco del quale l’autore debuttò in pubblico sette anni fa. La domanda è dunque: i contenuti esposti finora reggono un simile onere? La risposta è: sì. Nell’arco di 38 minuti, Sumney esplora la zona intermedia fra nero e bianco mettendo in discussione le appartenenze di razza e genere. Sull’astratto fondale ambient di “also also also and and and” afferma: “Sono consapevole della mia intrinseca molteplicità e chiunque desideri entrare in contatto profondo con me o il mio lavoro deve esserlo a sua volta”.
E come un Antony non ancora Anohni, ostentando teatralità “glam” e slancio melò fra arredi sonori da avant-garde cameristica, equipara in “Virile” la mascolinità a una prigione: “La virilità sbiadisce e ottenete l’individuo sbagliato”.
Poco prima aveva confessato in “Cut Me”, sfoderando un falsetto erotico su un’orchestrazione sospesa in impossibile equilibrio fra Bacharach e Scott Walker: “È quando la mia mente è annebbiata e piena di dubbi che mi sento più vivo”.
Per descrivere poi la portata delle proprie intenzioni evoca addirittura la figura del pioniere aerospaziale sovietico “Gagarin”: “Vorrei poter dedicare la mia vita a qualcosa di più grande di me”, canta con voce di seta che filtri elettronici via via arrochiscono in un ombroso scenario da jazz siderale, atmosfera replicata successivamente in “Colouour” con effetti quasi “prog” che rendono surreale l’intonazione da crooner R&B.
Con grazia da Frank Ocean e grandeur da D’Angelo, Moses Sumney s’iscrive così a ragione nell’aristocrazia della black music contemporanea: ha talento che sprizza da tutti i pori.