Moor Mother, appunti per un'enciclopedia nera
Nel nuovo album Black Encyclopedia of the Air Moor Mother mescola poesia, rap e afrofuturismo
Volendo localizzare le coordinate culturali di Black Encyclopedia of the Air, nuovo album di Moor Mother, è utile soffermarsi sulla prima inquadratura del video di “Obsidian”, dedicata alla targa segnaletica della casa di Dix Hills dove abitarono Alice e John Coltrane: preambolo a un breve episodio in cui la protagonista e il rapper dell’Alabama Pink Siifu s’immergono dentro un groove amniotico.
“I nostri antenati sono i detentori della storia, i nostri giardinieri della verità e delle fondamenta”, proclama in seguito un verso di “Tarot”, mentre il visionario spiritualismo dell’ambientazione sonora evoca le icone di Sun Ra e della stessa Alice Coltrane.
Indicazioni della rotta afrofuturista imboccata nel nuovo lavoro da Camae Ayewa, alias Moor Mother: musicista, poeta e attivista di stanza a Philadelphia con trascorsi punk e inclinazione alla musica di protesta, nota inoltre per essere voce del focoso collettivo jazz Irreversible Entanglements (che a metà novembre pubblica l’album Open the Gates).
Personalità artistica dalla vocazione radicale, espressa nei contenuti abrasivi dei dischi precedenti, dall’elettronica rumorista di Fetish Bones (2016) al dissonante habitat industriale di Analog Fluids of Sonic Black Holes (2019), dei quali si percepisce l’eco in “Zami”, ispirato dall’omonima autobiografia dell’autrice queer Audre Lorde.
Redatta all’inizio della pandemia con la supervisione del produttore svedese Olof Melander, in parallelo al prossimo Jazz Codes, medesimo titolo di una raccolta di poesie ancora inedita da cui entrambi prendono spunto, l’Enciclopedia Nera è animata da un nugolo di ospiti reclutati nel sottobosco hip hop angloamericano attraverso internet durante la quarantena. In “Shekere” – dal nome di un antico strumento africano – compare ad esempio il concittadino di Moor Mother Lojii, che a un certo punto recita con tono flemmatico: “Mi hanno addossato il dolore, mi hanno addossato la vergogna, avevano paura di me”.
Se a caratterizzare quel brano è l’insistente stridio di un violino dolente, il pigro andamento di “Vera Hall” sfocia nel fraseggio sbilenco di un sassofono dalla consistenza ectoplasmatica. Si tratta d’indizi che svelano la varietà timbrica incorporata negli arrangiamenti, ondeggianti fra R&B anni Novanta e jazz astratto, come accade nell’avvolgente “Race Function”, dove al microfono il britannico Brother May dice: “Mamma mi ha fatto alto dalle viscere della schiavitù”.
Nell’arco di 13 tracce svolte in appena 32 minuti Moor Mother sfodera così l’opera più accessibile del suo denso curriculum discografico, senza tuttavia arretrare di un millimetro sul piano delle motivazioni politiche.